
«La Legge 40 è incoerente e viola il diritto alla vita privata e familiare». Con questa motivazione la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha accolto ieri il ricorso di Rosetta Costa e Walter Pavan, genitori italiani di una bambina affetta da fibrosi cistica, ai quali la legge nazionale sulla fecondazione medicalmente assistita impediva lo screening pre-impianto del feto. Desiderosi di avere un altro figlio, i due volevano però la sicurezza che fosse sano, proprio attraverso le analisi pre-impianto vietate dalla cosiddetta Legge 40. Legge che prevede, tra l’altro, la fecondazione in vitro solo per le coppie sterili o quelle in cui il partner maschile sia affetto da malattia sessualmente trasmissibile.
In buona sostanza, secondo i giudici di Strasburgo non è possibile vietare un esame preventivo dei feti allo scopo di verificare se questi siano affetti da fibrosi cistica, dal momento che la legge italiana prevede la possibilità di aborto terapeutico per la stessa malattia. L’Italia, assieme ad Austria e Svizzera, è l’unico paese nel Vecchio Continente a vietare la pratica. Tante le coppie che si recano oltreconfine per bypassare l’ostacolo, creando di fatto una discriminazione sociale tra chi si può permettere la fecondazione “in trasferta” e chi no.
Sulla carta, la sentenza condanna lo stato solamente a versare alla coppia 17mila euro per danni morali e spese legali. Di fatto, però, dopo il fallito referendum abrogativo del 2005, riaccende attorno alla Legge 40 una polemica trasversale agli schieramenti politici.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:39