Il paradosso della crisi di Cinecittà

Cinecittà è da più di un mese occupata dai suoi 230 lavoratori in sciopero. In un paese che perde mille posti di lavoro al giorno, è la solita protesta contro l’esternalizzazione, la divisione delle maestranze in piccoli gruppi passati in varie società, preludio alla chiusura delle attività. I trasferimenti di rami d’impresa, per i più sono ordinaria amministrazione che non contempla licenziamenti. In Wind però una grossa esternalizzazione è stata bloccata anche con l’intervento di questo governo. Le polemiche sulle reali intenzioni abbondano nella strutturale sfiducia tra le parti. E qui c’è di mezzo Cinecittà, il marchio degli storici 22 teatri di posa romani sorti nel 1937, la storia del Cinema italiano di Fellini e Visconti, di 3000 film da Francis Ford Coppola a Scorsese, di 47 Oscar e 90 candidati. Cinecittà, e non Roma, è il cinema italiano nel mondo. Negli Usa è il set di Ben-Hur, Cleopatra e Gangs of New York. Le sue sorti sono in mano al “grande ufficiale” Luigi Abete, figlio di editori beneventani. Più che imprenditore, un rappresentante corporativo: presidente dei giovani industriali, di Confindustria, della Luiss e dell’Uir, degli Industriali romani. Onnipresente, dalla grande farmaceutica all’Abi, allo sport, la famiglia Abete, in politica senza essere coinvolta in partiti, è sopravvissuta a qualunque tempesta. Non è un produttore, Luigi, ma un grande mediatore. Un problem solver come quando, erede di Nesi, ha venduto Bnl, rimanendone presidente, a Parisbas. Vero membro dell’Aspen Istitute, non ha nemici né a destra né a sinistra, braccio a braccio fino alla fine con Geronzi per dividersi giusto in tempo per l’assoluzione per sé e la condanna per l’altro. Stava quasi raccogliendo la candidatura a futuro sindaco di Roma, quando gli è arrivata tra capo e collo la pietra di Cinecittà. Fu Ciampi ad affidargliela. 

Lo stato, che già ha in carico l’industria culturale alla Rai, voleva solo liberarsi di un brand così ingombrante. Malgrado gli sforzi, il 100% di 10 ettari di terreni, piscina all’aperto da 7000 m², studi e teatri di posa sono ancora del ministero dello Sviluppo mentre il ministeri dei Beni artistici e culturali detiene il 20% degli Studios. Giolittianamente, il timido Ornaghi e Passera si sono trincerati dietro la richiesta di cessare l’occupazione, lasciando il prefetto a pretendere i tavoli di colloquio. Forse l’occupazione non aiuterà le sue maestranze, ma certamente ha salvato enti a latere come il Centro sperimentale di cinematografia, l’Istituto centrale per i beni audio e la Cineteca nazionale, che dovevano essere chiusi dalla spending review e sono stati salvati dal clima di mobilitazione. Nel ’97 i Cinecittà Studios vennero affidati al gruppo Ieg - Italian Entertainment - di Abete, partecipato da Della Valle, De Laurentiis, Haggiag e per il 20% dal MiBac. Abete in realtà affittò ciò che non poteva comprare, con una spesa da locatario di 30 milioni in 15 anni. Per l’impegno che sgravava di costi il Fus (Fondo unico per lo spettacolo), Abete ottenne di essere liberato dall’Istituto Luce (Cinecittà Luce Spa) e dai suoi 120 dipendenti. L’archivio (150 film, documentari e 200 contenuti Tv) è finito su tre canali Iptv Telecom Italia, il resto fuso nel ministero che si è accolltato la mission della promozione. Scrive il Washington Post: «Cinecittà, da assoluto monolite statale del cinema, è divenuto un gruppo di piccole società specializzate più agili» che doveva, con le abilità dei lavoratori, richiamare i registi stranieri, «dopo che il cinema italiano era stato moribondo per lungo tempo». Ora però questo cinema non sta così male, anzi; nel 2011 ha toccato il record di 155 film. Ad agonizzare è solo Cinecittà dove sono stati prodotti solo 8 film e 6 show tv. 

Per il suo piano d’edilizia, Abete contava sulla confusione dei flash d’agenzia su Cinecittà: Cinecittà sull’Iptv Telecom; Cinecittà e gli accordi con Google; Cinecittà museo ed ora parco. Malgrado gli sforzi delle addette pr istituzionali, Carole André (l’interprete Rai della Perla di Labuan) e la 35enne Désirée Colapietro Petrini, sono stati gli americani (Benjamin Gottlieb Washington Post, «Cinecitta workers resist plans for hotel, theme park at acclaimed Rome film studio») a fare un quadro impietoso del management: giri interni di fatturazioni, risultato operativo basso, sotto i 20 milioni, 4 milioni di debiti corrispondenti quasi del tutto all’affitto degli stabilimenti, film sulla Toscana fatti in Argentina, prezzi alle stelle di camerini e servizi base, fuga dei produttori in Bulgaria, Romania e Serbia, ed infine «l’oltraggio di trasformare gli studi di Cinecittà in sfarzosi hotel» e la «reazione di alcuni dei più abili artisan, scenografi e costumisti del cinema italiano». A Roma l’occupazione sulla Tuscolana può perdersi in una ridda di sit-in permanenti, vecchi e nuovi tra cui quelli dell’Istat e del cinema Maestoso. 

Il brutto edificio sulla Tuscolana tra asfalto bollente, centri commerciali, call center e raccordo autostradale che all’interno racchiude i sogni di Roma antica, western, Colosso di Rodi e America anni ‘30 è un parte del venerabile cinema europeo. L’occupazione, lo stato di abbandono, anche l’incendio del famoso Studio 5 di Fellini, non avrebbero toccato Abete più di tanto se non avessero  prodotto le critiche Usa dove la lotta è stata accostata all’Occupy Wall Street. 

Si può ben dubitare dell’efficacia di un investimento da 600 milioni per il “Cinecittà World” a Castel Romano (con 52 lavoratori passati alla nuova Cinecittà Allestimenti e Tematizzazioni) dal punto di vista di Hollywood dove l’analogo parco a tema viene sempre rinviato a data da destinarsi ed il Theatre della cerimonia degli Oscar ha cambiato nome da Kodak a teatro Dolby per il fallimento della casa fotografica. Il grande mediatore non si è potuto nascondere dietro il grande mercato globale del divertimento. Ha manifestato nervosismo in paginate giustificatorie a pagamento da 25mila euro l’una di fine luglio su Repubblica, Corriere e Messaggero ed è infine esploso in una apposita conferenza stampa, minacciando di cacciare 50 persone: «Andate a vedere come funzionano gli impianti internazionali». Secondo il Nostro, che rilevò la ruota del ParkEur per chiuderla per sempre, funzionano soprattutto con accomodation che soddisfino le troupe straniere, per esempio con un grande albergo con parcheggio e centro fitness presso il teatro 9. Il rilancio ed il risparmio di $200 milioni il presidente di Cinecittà Studios li immagina nel taglio, più che del lavoro, delle attività: a parte quella del Cat, la post-produzione con 90 lavoratori (Cinecittà Digital Factory) passata alla multinazionale inglese Deluxe ed il settore mezzi tecnici tv con 6 alla Panalight. 

Abete, costretto dagli eventi, ha difeso il 1° agosto alla Commissione Cultura del Senato con energia il cambiamento strutturale di Cinecittà. Solo il fatto di avere vantato 60 milioni di investimenti in 3 lustri sarebbero stati sufficienti per dimostrare che non è un imprenditore. Pian piano è partito il pellegrinaggio in difesa del brand per lo storico sito di via Tuscolana: sono venuti i segretari sindacali, prima Angeletti, poi Camusso, persone di Polverini, Alemanno e Zingaretti, poi studenti, centri sociali, anche le Botteghe Storiche di Roma a esprimere solidarietà. il presidente del municipio ha spronato i lavoratori a fondare una cooperativa. 

Sel, Idv, pezzi del Pd, Fabio Rampelli e Marco Scurria (Pdl) delle commissioni Cultura dei parlamenti italiano ed europeo hanno cercato di mettere il cappello politico sulla vicenda. Tutti concordi con Angeletti: «Cinecittà è come Fiat e Finmeccanica: segna il livello produttivo italiano. Non può essere abbandonata perché ci rappresenta nel mondo come la Ferrari». 

Buone volontà ed auspici per cose diverse, produzione, tutela e formazione, fatte da soggetti diversi che spesso con i lavoratori a rischio non c’entrano. Non si risponde al paradosso di un cinema come quello italiano, che fattura più di 4 miliardi (solo nel Lazio 2,8) e vive insieme  le occupazioni di sale e teatri per paura che tutto si riduca a edilizia e centri commerciali. 4 miliardi non sono male rispetto agli 11 dei 5 colossi (Paramount, Universal, Disney, Sony Pictures e Warner Bros) di Hollywood o dei 12 di Bollywood (Gimmicks Productions, Cinedreams Adlabs, BR Films, Mukta Arts, Rajshri Pictures, Yashraj), della Cina che cresce alla media del 35% o dei 500 milioni del nigeriano Nollywood. 

Nel mondo globalizzato tutti fanno cinema e lo vendono a tutti. Tra rete veloce, satellite e digitale terrestre mai si è avuta un’epoca di così grande fruizione di fiction ed audiovisivo. Il film settimanale di famiglia si è trasformato nelle decine di prodotti visualizzabili e consumati da adulti e bambini alla settimana se non quotidianamente. Il consumo avviene più in tv che al cinema; ma anche la tv viene ora sorpassata dal digitale: il computer per ora, poi toccherà a tablet e smartphone. Le produzioni Usa, indiana, cinese trasbordano dovunque ed in tutte le forme, il grande cult movie, il racconto territoriale, storico, il serial fino a tutte le varianti miste tra realismo spicciolo e intrattenimento pomeridiano. Il cinema mondiale è ovunque finanziato dal sostegno pubblico, che in Europa vale 2 miliardi, in Francia tramite lo storico Cnc 750 milioni. Il nostro Fus eroga 76 milioni, ma bisogna tenere conto della scoperta italiana della dimensione piccolissima regionale. Ogni territorio ha una Film Commission per attrarre produzioni; solo il Lazio, dotatosi a marzo di una nuova legge sul cinema, spende 50 milioni  in un contesto che, si dice “non avrebbe bisogno di incentivi” e nel quale a detta dell’assessore alla cultura Fabiana Santini comunque «Cinecittà non è di competenza della Regione». Un altro milione se ne va per mille minirassegne dei comunelli dell’entroterra. 22 Cnc regionali, oltre i rispettivi Filas e Unionfidi, pesano centinaia di milioni, sono costosissimi oltre che controproducenti, finanziando localmente film magari girati nell’estero limitrofo. L’aiuto locale, poi, confonde produzione con gli innumerevoli festival, una partita di giro che distrugge e non costruisce. Finanzia pubblicamente la pubblica RaiCinema che diventa spietata concorrente e non partner strategico. Le tlc francesi con 40, le sale con 130 e gli operatori tv con 530 milioni restituiscono al Cnc quasi tutto l’aiuto. Non che tv, tlc e sale italiane non paghino tasse; semplicemente i soldi non tornano nel circuito (così alle 1744 sale italiane con 3817 schermi tornano solo 8 milioni). C’è poi il tabù della sala: il cinema di qualità, viene detto, è solo in sala ed all’uopo sta avvenendo la megatrasformazione degli schermi in 3D. Nel mondo 2011 (Motion Picture Association) le sale incassano $32,6 miliardi e l’anno scorso negli Usa si è registrato il peggior risultato dal ’95, solo 10,2 miliardi (-5%) per 1,28 miliardi di biglietti. La sala è piena di divieti e di etiquette, con biglietti che costano l’80% rispetto a vent’anni fa e che costeranno di più per la digitalizzazione. Risultato: l’occidentale i film li guarda a casa sul pc, spesso scaricandoli gratis. Quello della sala è un mito inutile difeso fino all’ultimo, come fino all’ultimo è stata tenuta la trincea della pellicola finchè non ha chiuso anche Technicolor. Un mito difeso anche male quando l’europarlamento rifiutando, per la prima volta nella sua storia, un trattato internazionale, quello sui diritti d’autore (Acta), nei fatti dà via libera al free download. D’altronde solo ora l’editoria si accorge che con i Dmr – i software di sicurezza - si avvantaggiano solo i grandi monopolisti, Apple e Amazon. Gli incassi delle sale italiane superano i 100 milioni, una quota piccola del fatturato di settore. Il cinema mondiale non si ferma alle 7400 sale del globo ma vive del giro industriale dei diritti tv, web, marketing, delle sponsorizzazioni dirette, dei gadget, dei dvd e ogni altro supporto, e della pubblicità che solo in Italia vale 60 miliardi. Nei giorni della morte di Renato Nicolini, re dell’effimero, ancora si misura quanto sia sbagliata la sua ricetta, vera nemica dei lavoratori di Cinecittà: localismo spinto all’estremo, finanziamento del consumo, non della produzione, esaltazione delle caste familiari culturali, rifiuto del trend tecnologico in favore del pane et circenses dei festival. 

Frutto di quel mondo è anche l’insopportabile unidirezionalità ideologica degli autori italiani che malgrado i flop al botteghino trattano sempre di complotti, povertà e caimani e non sanno trovare un solo spunto positivo in un paese leader in tanti campi. In un mondo che va verso i 50 miliardi di cineproduzione mondiale, nella copiatura e distribuzione libera digitale, quanto serve è finanziare solo ciò che leghi tutta la filiera digitale e del cinema, offrire a tutti risorse digitali di produzione e di postproduzione per invogliare i talenti, intervenire a livello nazionale e continentale. Esattamente l’opposto di quanto avviene, mentre ci si bea della visita guidata con  navette al museo vivente di Cinecittà. È la Rai che dovrebbe usare le competenze di Cinecittà, non come un peso ma per crescere in una produzione ora chiusa nel suo provinciale. Il governo, da Ciampi a Passera, non dovrebbe disfarsi dai problemi ma affrontarli. Né ci sarebbe niente di male nell’ammettere che un grande mediatore non sia all’altezza delle difficoltà imprenditoriali. Qui interessa fino ad un certo punto la questione occupazionale, poiché di mezzo ci va una questione più grande: quella della capacità e della volontà produttiva. Il cinema prodotto sostiene la cultura dell’intrattenimento e non il contrario.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:52