Pini, poco socialista e molto craxiano

Venuto meno ad agosto, il 75enne udinese Massimo Pini, nella diaspora socialista veniva indicato come quello finito a destra. Per gli altri era il socialista della mutazione, il craxiano non azzurro, ma nero di An.

Nell’anno della morte di Mafai, del bombarolo di via Rasella, delle madri di giovani uccisi da neofascisti, tutti ammantati da gloria, enfasi e retorica, per Pini c’è stato poco rispetto. È stato ricordato come uomo potente della prima e della seconda Repubblica in Rai ed Iri, poi in Finmeccanica, come pontiere tra Mediobanca e Ligresti, come ex marito della Boniver, come ultimo boiardo di stato per Amato e Tremonti. Ha avuto però più potere Miriam di Massimo: la prima ha passato una vita a giustificare errori su errori, il secondo a chiedersi del perché della vittoria perduta. Il Fatto e Dagospia hanno rappresentato le esequie di Pini come un siparietto di socialisti litigiosi, di assenti, di vip UniCredit presenti. Anche avessero voluto farlo, con la Mafai non si sarebbero permessi. Ci sono giornalisti che da un lato assillano i loro cari di falsa demagogia, dall’altro tengono le tasche piene di fango per i nemici anche oltre l’esigenza ed il bisogno tattici. Come i tanti che ancora parlano di cinghialone, Rizzo sul Corrierone scrisse: «Ecco, un altro dei socialisti che cercano dopo la diaspora del ‘93 con ostinazione di tornare a galla». Prendeva Pini per socialista perché aveva le sue medaglie al valore, i suoi bravi arresti di Tangentopoli (inchiesta edizioni Cosmopoli ’94). Pini però non era mai stato iscritto al Psi. Non socialista ma craxiano, e la differenza non è da poco.

Il Pini, amico di La Russa, o consigliere di Moffa presidente provinciale romano, come i Robilotta ed i Battilocchio eletti grazie al sostegno determinante di Storace, pongono problemi che l’assassinio fascista di Matteotti, cui plaudì anche Gramsci, immancabilmente risveglia. Anche i missini tiravano monetine a Craxi sotto lo sguardo benevolo e tifoso delle tgiste rai3 oggi in tailleur, ieri pasaradan. Spesso taluni liberali rivelano anch’essi un odio per i socialisti, inferiore solo a quella dei radicali che a Bettino seppero solo consigliare il carcere, loro che hanno sempre voluto tutti fuori. Che dire dei leghisti che pure per anni hanno avuto i voti socialisti del nord.

Sono i dilemmi che furono del socialista filo colonialista Labriola, del socialista storico Landolfi, delle giravolte turatiane fra le due guerre, del filo fascismo di Tasca, ultimo segretario Psi con Saragat prima della guerra, quando i due misero in minoranza Nenni. Dilemmi per converso degli Accame e degli Alemanno, ammiratori di Bettino. Craxi privilegiava il Risorgimento alla Resistenza. Non a caso il primo interruppe la guerra fraticida guelfoghibellina, la seconda la riprese. In famiglia il filone del socialismo tricolore fu la prima scommessa di Stefania, con Roberto Chiarini, che si divide tra presiedere studi su Craxi, Turati, Mancini e sulla Rsi.

Pini era parte del nazionalismo socialdemocratico, se non solo democratico, cui non si volle e si vuole dare un legittimo spazio. Il mutante D’Alema, lui sì mutante, rimasto coerente, nel rifiuto della socialdemocrazia, ha ragione quando sostiene che il riformismo, di cui ancora ci si riempie la bocca, era già morto prima della nascita del Pci. Il riformismo morì con la belle epoque, poi ci furono solo i massimalisti, i pattisti, i lombardiani, i radicali ed i vendoliani, da una parte, e dall’altra i dirigisti, i socialfascisti, i liberalsociali, i craxiani. Tutti definiti socialisti, nome che nel mondo è la Cuba di Fidel, ma che in Italia significa l’opposto.

Nessuno, nemmeno i missini, nel dopoguerra era all’epoca così anticomunista come i seguaci di Saragat e Mondolfo, ai quali si erano uniti ex trockisti, ancora più inveleniti con i figli di Stalin. L’unico giornalista che diceva la verità in faccia a Togliatti era il socialdemocratico Mangione. Perciò sul Psdi calò un permanente martello di accuse, condotto dal circo mediagiudiziario, di una pre Mani Pulite, che lo distrusse con lo scandalo Tanassi ’74. Allora scioccamente il Psi ne gioì, pensando di occuparne gli spazi. Perciò i laici e socialdemocratici di Critica Sociale, Parravicini, Ferrara e Caleffi non si fidavano dell’aiuto di Pini quando la loro rivista nel ’75 precipitò nella seconda chiusura per mancanza di mezzi dopo quella del ’26. Si ricredettero: Pini era, come Craxi, uomo di socialdemocrazia patria. Non ripetè l’esperienza dei massimalisti che si impossessavano del patrimonio culturale di destra socialista per poi regalarlo al Pci.

Per incarico di Bettino, il Nostro trovò gli inserzionisti (Mondadori, CBS Sugar, la Cariplo, Edilnord) e la sede provvisoria presso uffici di Berlusconi, poi sostituì il direttore Grimaldi con Intini. A deludere è la Cs di oggi che da una parte ringrazia in pompa magna Pini, e dall’altra lo tradisce sostenendo Formica ed i serratiani odierni in odio ai socialisti patriottici. Pini era tenace: non come Stefania e Sacconi che ripresero per un solo annetto senza convinzione Cuore e Critica, primo nome della rivista turatiana del 1891.

A buon diritto Pini si disse il biografo necessario di Craxi. Le sue 700 pagine di quotidianità ed esaltazione di un uomo che volevano uccidere, vilipese come pura esegesi, sono destinate nel tempo ad apparire vere, bandiera laica, cattolica, liberale e sociale del mondo non comunista e contrario ai poteri forti. Inutile cercare simboli all’estero in Reagan o la Tatcher: l’icona unica della destra sociale, del realismo laico e democratico patriot è solo Bettino, la sua difesa del capitalismo privato e del mix pubblico privato di Enimont.

La lezione di Pini mostra la prospettiva generale della nostra storia: la colpevole ammuina prima di azionisti, pattisti, repubblicani, radicali, da Valiani a Vattimo, poi  la confusione odierna dei liberali e rigoristi di sinistra e delle improvvisate estive di Giannino. fumogeni dove nascondere le accuse di Lombardi di mutazione malata del Psi, o di socialfascismo di Tatò. 

Invece no, non si tratta di stare a galla ad ogni costo. Pochi liberali e socialisti si dividono la scena, a destra come a sinistra, perché sono gli unici che sappiano leggere e scrivere. Tra loro i Giannino, per vezzo e per timore di perdere cattedra o rubrica, cercano di nascondere l’identità profonda. Popoli di ex missini, moderati, nemici dello Stato invadente, corporativi vagano senza un mission. A dargliela, semplice, immediata, sta l’eredità di Pini, rifiuto delle ideologie o loro stravolgimento, il suo nazionalismo democratico e gollista. Qualcuno strillerà di socialfascismo, fateglielo dire. Sono 50 anni che ci imbrogliano con gabbie di nomi e scandali strategici. Il nostro declino sta ab initio, lì, nella paura dei nomen.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:53