Puntare sull'industria. Già, ma come?

La diagnosi di Mediobanca sullo stato di salute dell’impresa italiana è quella che si riserva ad un malato terminale. Fare impresa in Italia, infatti, secondo l’indagine “Dati cumulativi di 2.032 imprese italiane” dell’ufficio studi di Piazzetta Cuccia, non è remunerativo, «perché il guadagno non è sufficiente a ripagare il costo del capitale». Insomma, fare impresa oggi non ripaga nemmeno l’investimento iniziale. «Tanto è vero - spiegano da Mediobanca - che nelle attività industriali vi è stata una distruzione di ricchezza pari a 1,4 punti».   

E tutto questo nonostante l’industria italiana abbia segnato nel 2011 un’ulteriore ripresa del fatturato, pari a 9,2 punti percentuali ispetto al 2010. Una crescita che però non è stata sufficiente nemmeno per arrivare a sfiorare i numeri del livello pre-crisi, quello del 2008: colpa proprio della tremenda flessione del 2009, l’anno in cui la crisi ha mostrato il suo volto peggiore, troppo forte per rendere utili anche i numeri positivi dell’ultimo anno.

E di numeri positivi si è trattato sul serio: le esportazioni, infatti, si sono mosse nel 2011 a velocità più che tripla rispetto alle vendite domestiche (+18,3% contro +5,5%). In particolare, è cresciuto il fatturato dei settori che hanno beneficiato degli aumenti dei prezzi delle materie prime di riferimento (ad esempio il +20,2% nel settore della metallurgia e il +17,6% del settore energetico) e di quelli che hanno invece agganciato una crescente domanda estera (come gomma e cavi, con un +20,2%). Sono andati male elettrodomestici (-3,4%), stampa editoria (-1,7%), farmaceutico e cosmetico (-0,7%). E sul fronte occupazionale, per il quarto anno consecutivo, si è assistito ad un calo (-0,2% nel 2011), anche se in misura inferiore al 2010 quando aveva perduto l’1,6% e soprattutto al 2009 (-2,7%). Ma il peggio sembra debba ancora venire. E a dirlo stavolta è il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, che preannuncia un autunno difficilissimo e parla di un futuro industriale del paese messo a serio rischio dalla crisi.

Il ministro Fornero parla della necessità di «puntare» sull’industria. Ma come? In Italia, investire nell’impresa è addirittura meno conveniente che acquistare con gli stessi soldi titoli di stato (che pagano l’1,5% in più). Anche assumere un dipendente diventa un’impresa: uno stipendio netto mensile di 2mila euro, ad esempio, corrisponde ad uno stipendio lordo di 2.963 euro, cui vanno ad aggiungersi ogni mese altri 929 euro di Inps, 220 euro di Tfr, 185 euro di Irap (una tassa dal meccanismo quasi perverso, che aumenta più l’imprenditore assume personale e/o investe nell’impresa), 247 euro per la tredicesima, 15euro per l’Inail. Ergo, un dipendente pagato 2mila euro netti costa alla sua azienda qualcosa come 4.559 euro ogni mese. 

Ma non è il solo ostacolo per chi sull’industria vuole «puntare» per davvero. Nel 2012, infatti, la pressione fiscale effettiva in Italia, cioè quella che mediamente grava su ogni euro prodotto legalmente e totalmente dichiarato, è pari al 55% del Pil. Non solo la più elevata di sempre della nostra storia economica, ma un record mondiale assoluto. Poi c’è la pressione fiscale “reale”, quella che grava sul contribuente riconsiderando il fatto che il “sommerso” non paga tasse, e che quindi la pressione fiscale si concentra sui “soliti noti”: non a caso, di recente, molti imprenditori hanno lamentato un pressing da parte del fisco pari a quasi il 70% del proprio fatturato.

Se non bastassero i disincentivi “monetari”, si può aggiungere al novero delle magagne quell’1% di Pil che si perde ogni anno a causa della cronica inefficienza della nostra giustizia civile. Il rapporto Doing Business 2012 redatto dalla Banca Mondiale piazza l’Italia all’ultimo posto in Europa, e al 158 posto su 183 paesi, per l’efficienza del sistema giudiziario nella risoluzione delle controversie commerciale: i procedimenti sono costosissimi, e servono mediamente 1.210 giorni per una sentenza, contro i 515 della Spagna, i 394 della Germania o i 300 degli Usa.

E poi c’è la burocrazia. Onnipresente, invasiva, barocca. Siamo ancora ben lontani dal sogno dell’ex ministro Renato Brunetta di poter aprire un’impresa in un giorno: sempre secondo Doing Business, se da un lato è vero che per aprire un’impresa in Italia serve lo stesso tempo che negli Usa, dall’altro si affronta un costo 18 volte superiore per espletare le stesse, identiche procedure amministrative. Senza contare che per un passaggio basilare come l’allacciamento alla rete elettrica possono volerci più di 6 mesi, a fronte delle due settimane che servirebbero in Germania. Un altro esempio? Un imprenditore italiano può arrivare a buttare via 285 soltanto per pagare le tasse. Ce n’è abbastanza per tenere lontano qualsiasi investitore straniero, oltre che per convincere gli italiani ad andarsene.

E agli imprenditori italiani resta solo la disillusione. Emblematico, a questo proposito, il tweet di ieri di un piccolo imprenditore genovese: «Lo stato italiano ci ha messo ben sedic’anni a farmi passare la voglia di fare impresa. È stato molto tenace, lo riconosco».

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:49