
Se c’è una cosa peggiore dell’essere una generazione perduta, è dover essere rappresentati e difesi da quelli di Generazione Perduta. Già, perché se c’è una cosa peggiore dell’essere parte di una generazione di cialtroni, e quella di essere rappresentati proprio dai più cialtroni di tutti.
Ecco, non so dirvi se il presidente del Consiglio abbia veramente detto che la generazione dei trenta-quarantenni italiana ormai è da considerarsi completamente persa in partenza, un po’ come la prima ondata di fanti americani sulla battigia di Omaha Beach, o se la frase gli sia solo stata attribuita da una delle tante voci internettiane, come ormai è prassi consolidata in Italia. Non lo so, e francamente non mi interessa più di tanto. Anzi, spero che l’abbia pronunciata per davvero. Anche se io, al posto di Mario Monti, più che di generazione perduta avrei parlato proprio di generazione di cialtroni. Perché nel mio vocabolario i perduti sono quelli senza speranza, mentre i cialtroni sono quelli che di speranze ne hanno (magari pochissime, ok, ma ne hanno), il problema è che non importa loro nulla di nulla.
Diciamoci la verità, miei piccoli amici trentenni o giù di lì: tutto sommato non ve ne frega un cazzo (e scusate se ho scritto la parola “verità”, visto che vi fa tanto male). Non ve ne importa nulla né della laurea o di quanto ci impiegherete a conseguirla, né del lavoro o se ne troverete mai uno decente, né di farvi una famiglia o se lascerete mai quella dei vostri genitori per farvene una per conto vostro. Perché tanto c’è sempre una giustificazione a portata di mano che potrete sventolare alla bisogna davanti al vostro ennesimo fallimento: la crisi economica, Silvio Berlusconi, Mario Monti, Mario Draghi, Mario Balotelli, le banche, Silvio Berlusconi, il Terzo Mondo con tutta la sua fame e le sue malattie, l’omofobia di Cassano, Silvio Berlusconi, il complotto dei rettiliani, gli amici Maria De Filippi, senza dimenticare Silvio Berlusconi. Prova ne sia che quelli che si laureano in tempo mentre contemporaneamente lavorano otto ore al giorno (perché non si iscrivono su Facebook a pagine di zecche frustrate facili al piagnisteo in cerca di assistenzialismo da prima repubblica, come invece piace fare a voi) si sposano a 26 anni, e trovano presto un lavoro di tutto rispetto e uno stipendio dignitosissimo con il quale potranno realizzare per loro e per i loro figli tutti i desideri che voi potrete solo scrivere sul diario di Poochie.
E poi arrivano quelli di “Generazione perduta”. I movimentisti della domenica di cui non si sentiva la mancanza, che si sbracciano per mendicare un briciolo di attenzione spolverando una retorica a metà tra il Bar dello sport e l’oratorio San Carlo, dicendo che è arrivato il momento di dire basta. A cosa non si sa, non lo dicono mai, l’importante è dire basta. Il presidente del Consiglio dice che la loro è una generazione perduta e questi rispondono che non hanno perso, è solo che non hanno ancora cominciato a giocare. Ma siamo seri: avete trentacinque anni, non più uno straccio di capello in testa, un lavoro pietoso e persino l’esistenza dei lemming è più accattivante delle vostre, e vi sentite anche in dovere di arringare le folle annunciando che non siete sfigati dentro, è solo che non avete ancora cominciato a giocare? Si può sapere, di grazia, che cosa accidenti aspettate? Che l’arbitro fischi il 90°? O che il presidente del Consiglio di cui sopra faccia un favore al mondo, ma soprattutto a me, mandandovi tutti quanti in miniera a grattare il talco a mani nude? Queste vostre mobilitazioni di maniera sono utili quanto un secondo sfintere sul gomito. Avreste dato un esempio migliore tacendo, lavorando sodo, facendo qualche sacrificio in più e rendendo un modello la vostra vita, non le vostre chiacchiere.
Giurin giurello, ci ho provato ad essere accomodante con voi. Sono andato addirittura a leggermi il vosto manifesto. Solo per scoprire poi che non solo avevo ragione a dare di matto, ma che non l’avevo fatto a sufficienza. È tutto un profluvio di “impegniamoci”, “prendiamo in mano il nostro destino”, “facciamo la nostra parte”, “è il nostro momento”, “tocca a noi”, “a chi, a me?”, “no, prima tu”, “vabbè, facciamo che partiamo insieme”, “ok, al mio tre: uno, due…no aspetta” e così via. Scusate, ma fino ad oggi dove accidenti siete stati? A lambiccarvi il cerebro chiusi dentro una cassapanca in arte povera? Avete dovuto aspettare le soglie dell’andropausa perché tra la segatura che riempie gli spazi vuoti della vostra scatola cranica si insinuasse il tarlo del dubbio che forse tutti quanti al mondo hanno uno scopo che va ben oltre l’happy hour del venerdì? Non uno straccio di proposta concreta, non uno che almeno mostri un po’ di coraggio e dica: «Mi sento pronto a cambiare le cose, se credete in me votatemi». Eh, no. Sarebbe troppo complicato, troppo impegnativo, troppo concreto. Troppo vero.
Ma andiamo avanti. Perché parlate anche di merito, meritocrazia e altre cose belle di quel tipo lì. Con un tono, però, che lascia un retrogusto cattivo: nel senso che il “merito”, così come sembra lo intendiate voi, è “quella cosa che fa sì che io lavori e abbia uno stipendio, e poi chissenefrega di cosa so fare o quanto sono capace”. E la vostra mobilitazione ha tutta l’aria del mero tentativo di saltare qualche posto nella fila per arrivare prima, e basta. Eh già.
Ho sempre detestato quelli che dicono: «Mi vergogno di essere italiano, questo paese fa schifo, voglio andarmene all’estero e non tornare mai più», e poi però restano sempre qui fra i piedi, a rubarci l’aria buona delle nostre belle Alpi e del nostro bel Mediterraneo, perché la verità è che non hanno nessuna soluzione in tasca, ma sono solo parte del problema. E poi all’estero chi li vorrebbe? Non li prenderebbero nemmeno in Sudan per allenarsi nelle lapidazioni. Ho sempre detestato quelli che odiano il proprio paese, figurarsi cosa penso di quelli che lo amano solo a parole. E comincio ad essere un po’ stufo di tutti questi ggggiovani con tante g e nessuna proposta decente.
Dite che il mondo non è solo bianco o nero, giusto o sbagliato, ma che ci sono anche tante sfumature di grigio, e questo grigio è il vostro alibi per non essere mai né l’uno né l’altro. Quando il vostro mojito ha poco ghiaccio o troppa menta sapete farvi valere, ma quando si tratta di cose serie vi sentite in diritto di aspettare che siano gli altri a risolvere i problemi al posto vostro, mentre voi ostentate discese in campo fittizie che durano quanto un post su un blog. Avete più rispetto persino per i beagle di Green Hill che per le vostre battaglie. E tutto sommato non dovreste lamentarvi, visto che nonostante tutto la vostra sorte è immeritatamente migliore della loro.
Non mi sono mai sentito perduto, ma ho cominciato a farlo quando vi ho sentiti parlare. Quando vi ho sentito dire che vorreste essere la spina dorsale del paese, senza però mostrare un briciolo di midollo. Mi sono sentito stanco, sfiduciato, abbattuto, e anche un po’ depresso. Tranquilli, mi farò una ragione anche di questo. Quello che mi manda in bestia per davvero non è tanto che piangiate ma non abbiate voglia di fare niente per risollevarvi, perché niente è quello che sapete fare. Mi urta soltanto il pensiero che fra dieci anni potrei anche dovervi pagare il Tavernello con i sussidi presi dalle mie tasse.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:36