
Le cronache informano che il ministro della Giustizia, “a sorpresa”, ha visitato il carcere romano di Regina Coeli. Non si sa se, al termine dei tre quarti d’ora di “ispezione” ne abbia ricavato la stessa impressione avuta dopo aver visto i padiglioni del carcere napoletano di Poggioreale. Servizievoli resoconti giornalistici informano che il ministro è stato applaudito dai detenuti. Chi, tuttavia, non ha applaudito è Sarshedin Saidani, venticinquenne detenuto tunisino. Nella notte si è tolto la vita impiccandosi; e doveva essere ben determinato in questo suo estremo proposito, se è vero che non disponendo di altri “strumenti”, per togliersi la vita ha utilizzato l’elastico degli slip; e questo, informa l’agenzia “Dire”, «nonostante fosse controllato a vista dalle guardie».
Perché era controllato a vista? Sarshedin era ricoverato nel centro clinico di Regina Coeli «in quanto malato di mente», e aveva varcato la soglia del carcere circa una settimana fa, «con l’accusa di rapina aggravata da lesioni e resistenza a pubblico ufficiale». In una parola: tenta una rapina, viene bloccato, resiste all’arresto; e infatti: «Il detenuto aveva già creato anche problemi piuttosto seri… era aggressivo già appena preso. Ci volevano tre poliziotti per tenerlo». Dichiarato «malato di mente», lo psichiatra aveva appunto disposto la sorveglianza a vista, e il giudice della direttissima aveva fissato la perizia. Perizia ulteriore, par di capire. Una sorveglianza a vista che si è attenuata scesa la notte: «Le guardie hanno spento la luce per farlo dormire, e lui si è ucciso», spiega il garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni; e il direttore del carcere di Regina Coeli, Mauro Mariani afferma: «Le luci andavano spente, c’è sempre un limite tra il rispetto della dignità delle persone e la prevenzione dei pericoli, soprattutto con una persona già fragile psicologicamente».
Ora l’unica cosa che si dovrebbe scongiurare è che per questo suicidio a pagare le conseguenze siano gli agenti di custodia, chiamati tutti i giorni a un compito ingrato e impossibile: a Regina Coeli come in qualunque altro carcere italiano. E infatti, sempre ieri, Marroni ha denunciato in una conferenza stampa: «Come emerge anche dai rilievi della Asl, le condizioni igieniche e strutturali in cui versa il carcere, sono state definite semplicemente “catastrofiche”». Per quel che riguarda la “catastrofe”, il centro diagnostico e terapeutico di Regina Coeli, «struttura di rilievo nazionale della medicina penitenziaria», sempre secondo quanto riferisce Marroni, «rischia la chiusura per gravi carenze di carattere strutturale, igienico e sanitario: servizi igienici in condizioni critiche e precarie, pavimenti sconnessi da sostituire, infissi da sottoporre a revisione, impianti tecnologici non conformi… Il centro clinico di Regina Coeli sta lentamente, ma inesorabilmente morendo. Da tempo la struttura non garantisce più gli standard minimi previsti dalla legge, nonostante i lavori di manutenzione eseguiti.
Su questa struttura si sta addensando una tempesta perfetta, con gravi carenze igieniche e strutturali, cui si sommano il sovraffollamento e l’insufficiente dotazione di personale sanitario e penitenziari». Una chiara situazione fuorilegge, di cui ora è da credere, il ministro della Giustizia – che a sorpresa ha ispezionato il carcere – è venuta a diretta conoscenza. Si può chiedere, sommessamente, quali urgenti provvedimenti ha disposto, sollecita, promuove? Ha convocato i suoi collaboratori, i responsabili del Dap, il giudice di sorveglianza, si è fatta consegnare il rapporto dell’Asl, ha chiamato Marroni per delucidazioni e chiarimenti? Insomma, uscita dal portone che occorre varcare per potersi dire veramente “romani”, cos’ha fatto, cosa intende fare? Dall’inizio dell’anno, si sono tolti la vita nelle carceri italiane 33 detenuti e 7 poliziotti penitenziari: ricordiamone i nomi: 16 febbraio: assistente capo Achille Del Giudice, 42 anni, a Roma. 18 febbraio: ispettore capo Giuseppe Ledda, 42 anni, a Caserta. 6 aprile: assistente capo Mauro Casentino, 44 anni, a Rossano Calabro. 14 giugno: assistente capo Vincenzo Via, 35 anni, a Trapani. 4 luglio: assistente capo Gianfranco Mura, 37 anni, a Busto Arsizio. 26 luglio: assistente capo Michele Maddalena, 48 anni, a Vasto. 27 luglio: assistente capo Giuseppe Gagliano, 45 anni, ad Augusta. Usciamo dal “pianeta carcere”, entriamo per un attimo nel più vasto sistema-giustizia. Recentemente un economista apprezzato, Tito Boeri, ha calcolato che la gestione di una causa civile costa allo stato circa 500 euro, contro un incasso, attraverso il contributo unificato che in alcuni casi può essere di appena 43 euro (cioè solo l’8,7 per cento delle spese sostenute a fronte di una media europea del 25,9 per cento).
Boeri ricorda che secondo il “Rapporto 2010 della Commissione Europea per una Giustizia Efficiente”, il restante 91,3 per cento delle spese è a carico della collettività, per un totale di circa un miliardo di euro. Al problema della giustizia civile si è dedicato anche un altro economista, Leonardo D’Urso. Dal suo studio emerge che ogni anno i tribunali sono sommersi da oltre cinque milioni di nuove procedure, e che solo il 40 per cento di esse viene smaltito. Ci ricorda che uno dei grandi problemi della gestione civile è l’assenza di un budget di entrata per ogni tribunale, e una corretta contabilità di gestione, controllo e imputazione dei costi. Dunque, signor ministro della Giustizia?
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:01