La morte della fonderia l'Ilva

«Nella popolazione residente a Taranto si sono osservati eccessi significativi di mortalità per tutte le cause e per il complesso delle patologie tumorali, per singoli tumori e per importanti patologie non tumorali, quali le malattie del sistema circolatorio, del sistema respiratorio e dell’apparato digerente, prefigurando quindi un quadro di mortalità molto critico...», si legge nelle 300 pagine del provvedimento d’arresto scritto dal gip Patrizia Todisco. Un atto che chiude, e per via giudiziaria, l’Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Italia. Un piccolo particolare: è dagli anni ‘60 che a Taranto si vive d’Ilva.

La politica di allora promise e realizzò il polo siderurgico per evitare l’immigrazione dal Sud al Nord. Non vi fu più agricoltura, pesca e pastorizia nel tarantino: la nuova fabbrica creò lavoro per la metà della popolazione residente (comprendendo anche l’indotto). Anche dalle limitrofe Basilicata e Calabria in tanti raggiungevano Taranto, e perché il posto fisso all’Ilva rappresentava la svolta economica per interi gruppi familiari. Ieri in migliaia di lavoratori hanno partecipato all’assemblea sulla situazione creata dal sequestro degli impianti. Gli otto arresti notificati dalla magistratura tagliano le gambe definitivamente all’azienda, e riguardano Emilio Riva (il re italiano dell’acciaio, che rilevò l’Ilva dallo Stato), il figlio Nicola Riva (gli è succeduto nella presidenza Ilva), Luigi Capogrosso (ex direttore dello stabilimento di Taranto), Ivan Di Maggio, Angelo Cavallo e altri tre dirigenti. Immediata la reazione dei lavoratori, che hanno subito presidiato tutti gli ingressi alla città di Taranto.

E ieri oltre 200 lavoratori dell’Ilva di Cornigliano (a Genova) sono usciti dai cancelli per protestare contro la decisione dei giudici di sequestrare le aree della società a Taranto. La preoccupazione dei lavoratori genovesi è molto forte, perché le lavorazioni svolte a Genova dipendono in gran parte da manufatti provenienti dalla Puglia. «Tra cinque giorni - ha detto il segretario della Fiom Grondona - non avremo più materiale da lavorare». Intanto proseguono i blocchi stradali da parte dei lavoratori dell’Ilva di Taranto, che stanno inscenando diverse manifestazioni di protesta. Oltre al presidio davanti allo stabilimento, ci sono blocchi sulla statale 100 Taranto-Bari, la statale 106 jonica, la strada Taranto-Statte e la città vecchia di Taranto. Le forze dell’ordine sono impegnate a deviare il traffico su strade secondarie, e si temono confronti non certo pacifici tra operai e rappresentanti dello stato. «Bisogna salvaguardare e risanare il sito dell’Ilva di Taranto altrimenti avremo una voragine occupazionale e la salute non migliorerà», sottolinea il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni. «La storia di Taranto è cambiata per sempre. Nulla sarà come prima», affermano in una nota Luigi Boccuni, Paola Casieri, Saverio De Florio, Alessandro Marescotti, Annamaria Moschetti, Rino Raffone e Massimiliano Saracino, del cartello delle associazioni ambientaliste “Taranto respira”, riferendosi al provvedimento della magistratura che, di fatto, spegne il cuore di coke della fusione.

I tecnici sanno bene che riavviarlo sarà difficile, è come se si spegne per sempre un vulcano, difficilmente erutterà più. Il posto di lavoro in fonderia è morto (forse per sempre) per il 20% della popolazione tarantina, a cui va aggiunto un indotto della stessa percentuale. Su Taranto insiste già un 20% fisiologico di disoccupazione, a cui se ne aggiungerà un ulteriore 40%: il 60% di disoccupazione significa rivolte sociali certe alla ripresa autunnale. «In Italia le bonifiche non vengono fatte da oltre 12 anni e a Taranto da 50 anni. È giusto che Taranto sia risanata, ma è giusto anche che l’Ilva continui a produrre. Non c’è futuro senza questa fabbrica», è lo sfogo di uno dei lavoratori dell’Ilva che stanno scioperando per il sequestro degli impianti a caldo. «Se l’Ilva chiude come faremo, come daremo da mangiare alle nostre famiglie? - si domanda un dipendente - Siamo ingegneri, tecnici, operai: non c’è distinzione di figure professionali. Siamo tutti nella stessa situazione...».

«La chiusura dell’Ilva di Taranto sembra riportare drammaticamente indietro di anni la lancetta dell’orologio, al tempo in cui troppo spesso la tutela dell’ambiente sembrava inconciliabile con le attività produttive»: questo il commento di Fabrizio Vigni, presidente nazionale Ecologisti Democratici. «Ma la chiusura degli impianti non è una soluzione - sottolinea Fabrizio Vigni -, tanto più proprio nel momento in cui è stato finalmente definito un protocollo d’intesa per la bonifica e la riqualificazione ambientale. Ci auguriamo che quanto più rapidamente possibile si creino le condizioni di ripresa delle attività per dare una risposta al dramma di migliaia di lavoratori e delle loro famiglie». Alla conferenza stampa sul sequestro hanno partecipato anche il procuratore di Taranto, Franco Sebastio, il sostituto procuratore generale presso la Corte di appello di Lecce-sezione di Taranto, Ciro Saltalamacchia, magistrati del pool di tutela ambientale della Procura di Taranto e i vertici dei carabinieri del comando provinciale di Taranto e del Noe di Lecce.

«Le responsabilità politiche, amministrative, economiche non spetta a noi cercarle. Abbiamo operato - hanno detto i magistrati - nel recinto delimitato dal Codice. Non può esserci un bivio per la magistratura tra la tutela del posto di lavoro e la tutela dell’ambiente. Esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e la necessità di perseguire i reati». «In Italia si smantella tutto quello che produce ricchezza e il Governo vuole far diventare il nostro Paese una colonia», in questi termini il segretario del Partito Comunista, Marco Rizzo, ha commentato la situazione relativa all’Ilva di Taranto e le sue ripercussioni sullo stabilimento di Genova. Secondo Rizzo «si aggiunge l’incapacità e l’irresponsabilità degli organismi dello Stato. Il sequestro dello stabilimento Ilva di Taranto, da parte della magistratura pugliese, mette in crisi migliaia di lavoratori e le loro famiglie sia a Taranto sia a Genova, dato che le lavorazioni svolte nel capoluogo ligure dipendono in gran parte da manufatti provenienti dalla Puglia». «Ho l’impressione che a Taranto si stia cercando di costruire una guerra tra lavoro e tutela dell’ambiente», nota Maurizio Lupi, vicepresidente Pdl della Camera dei deputati. «Colpire Taranto significa colpire duramente la filiera, con conseguenze economiche e sociali drammatiche», così Federacciai chiede al governo la riapertura dello stabilimento: ma il governo ha le mani legate, la magistratura ha ordinato la morte della fonderia.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:03