
All’indomani della notizia sul conflitto di competenza sollevato dal presidente della Repubblica sul caso delle intercettazioni effettuate dalla procura di Palermo scrivemmo che «quando indagini e processi riguardano fatti talmente lontani da non perseguire un esito giudiziario ma la riscrittura della storia di un Paese, quando una parte della magistratura rivendica pubblicamente un improprio ruolo di controllore di etica e moralità, quando la funzione legislativa viene sottoposta al gradimento preventivo del potere giudiziario» è ovvio che si arrivi prima o poi al conflitto istituzionale. Una constatazione che non tutti hanno compreso per la sua gravità.
Il caso che contrappone la presidenza della Repubblica alla procura di Palermo, e che vede schierarsi da una parte e dall’altra, con il solito riflesso pavloviano che caratterizza le discussioni in tema di giustizia, da un lato gli adoratori delle procure e dall’altro i fautori della differenza “genetica” dei magistrati, non può infatti risolversi come uno dei tanti episodi di contrapposizione tra politica e magistratura. Men che meno può esaurirsi nella banale notazione che nel corso del suo settennato il presidente Napolitano si è dimostrato assai spesso consapevole dei rischi che la sovraesposizione della magistratura comporta, lanciando al riguardo precisi moniti, e dunque la vicenda palermitana altro non sarebbe che un segnale reattivo nei suoi confronti. Una notazione come questa risulterebbe in realtà scontata, finendo per ridurre la questione alla constatazione del sinallagma che lega la “fuoriuscita di notizie” relative a specifiche indagini ed a specifiche persone ogni qualvolta le stesse pubblicamente criticano la magistratura, e taluni uffici giudiziari in particolare.
Una anomalia propria del solo sistema giudiziario italiano che abbiamo denunciato decine di volte tanto da divenire una ovvietà. Insomma, senza andare fino al Quirinale, e con il dovuto rispetto delle proporzioni, per compiere una analisi del genere bastava fermarsi dalle parti di Coverciano e rammentare quel che è capitato questa estate al portiere della nazionale di calcio, punito a colpi di succose “fuoriuscite” dopo aver espresso dubbi sulle modalità di conduzione di alcune indagini e sulla strumentalizzazione di alcuni atti giudiziari. Viceversa l’attuale vicenda si segnala per il fatto di iscriversi all’interno di una indagine che già rivendica in maniera aperta la volontà di alcuni procuratori di “commissariare” le istituzioni attraverso un controllo di eticità che si sostituisce a quello di legalità.
In questo cammino la particolarità è che le indagini non servono affatto a dar luogo ad un successivo accertamento giudiziale ma solo a riscrivere una pagina della storia patria. L’anomalia sta nel fatto che, al di là delle improbabili acrobazie giuridiche con le quali si vuole nascondere l’evidenza, qualsiasi decisione presa in sede politica oltre venti anni fa sarebbe legata a fatti sui quali è del tutto legittimo interrogarsi, in sede giornalistica e storica ma che, in una democrazia non afflitta dal male della “invasione di campo” tra i poteri dello stato, la magistratura non avrebbe nessun interesse ad approfondire, se non altro per la loro evidente imperseguibilità. In realtà quel che si vuole rivendicare con questa indagine è che non esiste nessun ambito della vita pubblica in cui il potere giudiziario non possa penetrare per sindacare, anche in assenza di responsabilità accertabili in sede giudiziaria, i comportamenti e le scelte dell’esecutivo e del legislativo. Una verifica che, proprio per il fatto di non aver fin dall’inizio giustificazione nella sede in cui la si esegue, finisce per trasformarsi in un controllo etico sui comportamenti, o peggio controllo morale ex post, in tutti i casi in un’inammissibile invasione di campo. Una iniziativa che, per questo, travolge la storia limpida di uomini come Giovanni Conso ed anzi costruisce una attività di indagine, al solito portata avanti attraverso il consueto uso massivo di intercettazioni telefoniche “preventive” che, alla ricerca di reati meno improbabili rispetto a quelli per cui si indaga, non si arresta neppure di fronte all’area di immunità che riguarda il Capo dello Stato, salvo poi invocare l’occasionalità degli ascolti delle sue conversazioni.
Sotto questo profilo il mancato rispetto della inviolabilità delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, in virtù della funzione apicale di garante degli equilibri costituzionali che egli incarna, anche per il suo valore simbolico, assume la valenza dirompente di una pretesa di supremazia di fatto. Ed allora è questo ultimo un altro punto su cui occorre riflettere, anche qui senza infingimenti. Sotto un certo profilo, infatti, anche se con conseguenze istituzionali di diverso rilievo, questa vicenda richiama quella che vede da anni costantemente intercettati “indirettamente” gli avvocati italiani quando conversano con i loro clienti. In realtà quel che avviene ha sovente ben poco di occasionale, giacché si sottopongono ad intercettazione utenze dalle quali è scontato avvengano contatti proprio con quei soggetti che dovrebbero godere di una relativa immunità. Così come sta avvenendo per quelle del Capo dello stato, anche le conversazioni degli avvocati vengono illegittimamente ascoltate (e nel caso degli avvocati ancor più illegittimamente riportate negli atti di polizia dapprima ed in quelli giudiziari poi) con l’escamotage della occasionalità per giustificare un comportamento altrimenti contra legem.
Un trattamento, sia detto per il vero, che da ultimo si verifica con frequenza anche nei confronti di parlamentari. Il tutto attraverso le maglie larghe di una giurisprudenza tutta tesa a salvaguardare le attività di indagine e assai poco i diritti individuali. Insomma, in un paese in cui il rispetto per il disposto dell’art. 15 della Costituzione appare assai scarso, e la consuetudine investigative delle procure è ben poco limitata dal controllo giurisdizionale, non esistono aree avanti alle quali chi indaga sa di doversi arrestare e dimostrarlo anche al massimo vertice delle istituzioni è la misura del vero rapporto di potere oggi esistente. Del resto non è strano che ciò avvenga da parte di uffici giudiziari i cui appartenenti non disdegnano uscite schiettamente politiche censurando preventivamente l’operato del parlamento rispetto alle leggi in discussione, ovvero teorizzano il commissariamento di interi stati dell’est d’Europa, oppure rivendicano la marginalità delle intercettazioni in un paese che sotto questo profilo non ha eguali nel continente. Non è strano, purtroppo, in un paese in cui la classe politica, tutta, ha lasciato cadere nel nulla la possibilità di una revisione della Costituzione necessaria sia per regolare i diversi rapporti tra i poteri dello stato, sia per rafforzare la magistratura giudicante rispetto a quella requirente tutelando un principio di terzietà che è rimasto lettera morta rispetto al disposto dell’articolo 111 della Costituzione.
Ma c’è ancora di più in questa vicenda. Il messaggio che, in maniera chiara, lanciano i procuratori di Palermo, in un momento in cui la legittimazione della classe politica è ai minimi storici, è che il potere di indagine è sorretto dal consenso popolare, e dunque mal tollera ogni aerea di immunità sottratta alla conoscenza giudiziaria, anche se è prevista dalla legge. Sotto questo profilo le reiterate dichiarazioni riguardanti il fatto che le conversazioni del presidente della Repubblica erano state analizzate e ritenute ininfluenti, costituiscono la rivendicazione del superamento della legge. In uno stato di diritto, e secondo la nostra Costituzione, i magistrati godono di ampie guarentigie perché hanno la funzione di applicare la legge in maniera libera ed indipendente. Ma la legge declina anche i limiti delle loro attività, quando si va al di là dei limiti, quando si va costantemente al di là dei limiti, non ha senso domandarsi perché tutto questo possa arrivare a negare le prerogative della presidenza della Repubblica, si corre il rischio di sentirsi rispondere da qualche pm “e perché no?”
*Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:48