La crisi morde. La tempesta d’agosto si è abbattuta in anticipo su Spagna, Italia e Grecia. Inevitabile che la politica risenta dello scossone dei mercati (Borsa -2,8% e spread ai livelli del gennaio scorso, oltre i 520 punti). L’ipotesi di voto anticipato in autunno – smentita ieri da autorevoli esponenti di Pdl e Pd (sarebbe un «fallimento» per Cicchitto, da «irresponsabili» per la Finocchiaro) – riflette comunque il nervosismo e la debolezza di tutti gli attori in campo.
Innanzitutto del premier Mario Monti, politicamente indebolito dall’evidenza che la sua cura non sembra sortire gli effetti sperati. Sono trascorsi nove mesi e in termini di rischio default, o di necessità di chiedere un salatissimo salvataggio, siamo più o meno laddove eravamo nel dicembre scorso, con l’aggravante di avere nel frattempo sparato/sprecato parecchie cartucce. Il premier appare deluso, sembra non sapere più cosa fare. E anche se avesse in mente altri possibili “shock”, non avrebbe probabilmente la forza di imporli ai partiti, con l’avvicinarsi delle elezioni sempre più attenti al loro consenso. Se dopo un anno non siamo riusciti a “sganciare” il nostro destino da quello di Grecia e Spagna, qualsiasi cosa si possa rimproverare a Bruxelles e a Berlino, è però innegabile che molto è da imputare a noi stessi: alle resistenze al cambiamento da parte della società italiana, o meglio di quei numerosi «percettori di rendita da spesa pubblica», i cosiddetti “topi nel formaggio”, ma anche agli errori del governo tecnico, che non ha svolto nella loro interezza, o ha mal interpretato, i “compiti a casa”.
I mercati guardano alla probabilità che i debiti vengano ripagati alla loro scadenza. Deficit, debito, Pil sono tutti fattori-chiave nel valutare quella probabilità. Se uno solo di essi è negativo, allora il rischio-paese aumenta riflettendosi sui costi di finanziamento. Solo dopo enormi sforzi l’Italia è riuscita a mettere sotto controllo il primo – il deficit – ma aumentando le tasse su produttori e consumatori, al prezzo di deprimere il Pil, e quindi indirettamente di appesantire ulteriormente il debito. Purtroppo Monti è caduto nello stesso equivoco dei suoi predecessori: ha pensato prima alla stabilità dei conti, rimandando la crescita ad una sorta di “fase due” che sembra non arrivare mai.
Nessun governo che abbia così scadenzato la sua azione è mai riuscito nell’intento, essendo le due cose – conti e crescita – collegate. Dal decreto “salva-Italia”, oltre alla riforma delle pensioni e all’introduzione dell’Imu, doveva partire un primo pacchetto di tagli alla spesa pubblica (che invece ha visto la luce ben 7 mesi dopo, all’inizio di luglio), e un concreto, credibile piano di dismissioni, immobiliari e non, per abbattere subito lo stock del debito (abbozzato solo di recente, ma dagli obiettivi poco ambiziosi e i tempi ancora incerti). Tagli alla sanità, ai sussidi alle imprese (rapporto Giavazzi) e alle agevolazioni fiscali avrebbero potuto garantire già dal prossimo anno una consistente riduzione delle tasse su lavoro e impresa, per esempio con l’abbattimento dell’Irap.
I successivi due provvedimenti, volti a rilanciare la crescita, le liberalizzazioni e la riforma del mercato del lavoro, sono usciti annacquati dal confronto con le parti sociali o dall’esame parlamentare e hanno contribuito, anziché a restaurare un minimo di fiducia nella ripresa economica, alla prima secca perdita di credibilità del premier agli occhi dei mercati e dei media di riferimento del mondo economico e finanziario internazionale. Sopravvalutando la portata del suo operato, e allo stesso tempo registrando che non sortiva l’effetto sperato sullo spread, Monti si concentrava sulla politica europea, sperando, e adoperandosi, perché la soluzione, il “bazooka” contro i mercati, potesse arrivare dall’Europa, ammorbidendo la linea tedesca.
Gli altri attori, i partiti che sostengono il governo Monti, temono di arrivare praticamente esanimi all’appuntamento elettorale del 2013 e il loro unico scopo è preservare anche nella prossima legislatura le loro quote di potere. Si fa sempre più salato il conto del sostegno alle misure impopolari del governo Monti, sacrifici tanto più invisi all’opinione pubblica quanto più risulteranno inefficaci. Ad aggravare le prospettive elettorali dei partiti la loro cronica incapacità di autoriformarsi e la loro ossessiva concentrazione su beghe di palazzo incomprensibili ai cittadini. Nessuno ha minimamente idea di cosa fare, e come, una volta vinte le elezioni, se non andare per l’ennesima volta a Berlino a chiedere copertura illimitata contro gli attacchi dei mercati.
La loro unica preoccupazione, quindi, è trovare l’accordo per una legge elettorale che li tuteli il più possibile dall’exploit di eventuali nuove offerte politiche, capace di “blindare” la propria consistenza numerica in Parlamento, e qualcuno potrebbe essere tentato dal voto anticipato prima che i mesi che ci separano dalla scadenza naturale della legislatura provochino un’ulteriore erosione dei consensi e consentano il lancio di nuovi competitor. Insomma, Monti avrà anche osato laddove finora nessun governo aveva osato spingersi nel tentativo di raddrizzare la pianta storta, ma data la gravità della crisi il suo operato non può essere ritenuto sufficiente.
Tuttavia, le alternative che potrebbero realisticamente scaturire dal voto del 2013 non sembrano promettere di meglio. Se il Pd e la sinistra dovessero stravincere, con Bersani che già si sente Hollande, e il centrodestra dovesse disgregarsi, difficilmente un’ipotesi Monti-bis potrebbe decollare, perché a quel punto i vincitori reclamerebbero per sé il timone, e a Monti non rimarrebbe, forse, che il ministero dell’economia, ma da prigioniero più che da protagonista. Un risultato più sfumato nei numeri per formare una maggioranza di governo favorirebbe una grande coalizione. Alla Rossiyskaya Gazeta il premier ha fatto capire di restare a disposizione: «Rimarrò, come lo sono adesso, un senatore a vita. Grazie a questo incarico avrò modo di osservare la vita del paese e continuerò a lavorare per il suo bene». Ma rischierebbe di rivelarsi solo una brutta copia dell’esistente, con riforme sempre più annacquate e sabotate.
Che si voti nella primavera prossima o in autunno, insomma, l’unico “big bang” in grado di riformare la politica italiana, di sparigliare i giochi, sarebbe la candidatura diretta di Monti, che costringerebbe vecchi partiti e nuove liste a riposizionarsi e a sciogliere ogni ambiguità programmatica. Il professore non scalda certo il cuore degli elettori, ma in questa fase resta più credibile degli altri screditati leader e ricevendo una legittimazione popolare diretta sarebbe più forte dei veto-players politici e sociali.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:40