La guerra all'Italia dei fondi sovrani

Siamo in guerra e neanche lo sappiamo. Il campo di battaglia non è in qualche angolo sperduto del pianeta, così lontano da fare fatica persino a scovarlo sul mappamondo. Si combatte in casa nostra, eppure nessuno ha ancora dichiarato la legge marziale, non ci sono oscuramenti, non c’è coprifuoco, non c’è il razionamento del cibo e dei generi di prima necessità. È una guerra scoppiata senza dichiarazioni di ostilità, incursioni aeree, bombardamenti, battaglie campali, cannonate. Non si lamentano né vittime né feriti. Non è stato sparato un solo colpo. Ma il risultato sarà lo stesso di qualsiasi altra guerra: chi vince si prende tutto. Chi vince comanda.

Che razza di guerra è mai questa? È la guerra dei fondi sovrani, che si combatte senza armi ma a suon di fusioni e acquisizioni di aziende strategiche. Non serve un esercito numeroso e ben equipaggiato quando si hanno i soldi sufficienti per occupare di fatto una nazione senza colpo ferire. Sembra la trama di un romanzo di Tom Clancy, invece è il succo dell’allarme lanciato dalla Consob, la Commissione nazionale per le società e la borsa, il superguardiano del mercato azionario italiano: i fondi sovrani detengono partecipazioni in circa un terzo delle società nazionali quotate, e la percentuale è destinata ad aumentare vertiginosamente nel prossimo futuro.

Ma cosa sono i fondi sovrani? Per definizione, si tratta di fondi di investimento istituiti o posseduti da un governo, un’autorità monetaria nazionale o, comunque, da un’agenzia pubblica. È proprio negli ultimi anni che questo genere di fondo ha attraversato il suo periodo d’oro, e continia a farlo tutt’ora. Si stima che circa il 70% di quelli esistenti sia stato costituito a partire dal 2000. La maggior concentrazione dei fondi sovrani si registra in medioriente, nei paesi ricchi di petrolio o comunque di materie prime: gli studi riportano che in quest’area si concentri oltre il 60% dei fondi esistenti. Secondo la Consob, «l’aumento del prezzo delle materie prime ha consentito a tali paesi di accrescere notevolmente le risorse destinate ai fondi sovrani: il patrimonio gestito dai è passato infatti da 2mila a 4.600 miliardi di dollari Usa nel periodo 2007- 2011, arrivando a rappresentare circa il 6% del Pil mondiale». Dal punto di vista prettamente economico, l’esistenza di questi fondi rappresenta una manna dal cielo, perché garantisce un consistente apporto di liquidità e stabilità negli investimenti in un mercato altrimenti asfittico per colpa della crisi. Dall’altro, sono un’arma non convenzionale. Perché, in sostanza, tutto ciò che questi fondi acquistano finisce nelle mani di un’altra nazione. Che, un’azione dopo l’altra, può tranquillamente decidere di impossessarsi delle risorse strategiche di un altro stato semplicemente acquistandole al prezzo di mercato. Non è fantapolitica da romanzo, ma un rischio concreto.

«I Fondi hanno tentato di scalare alcune importanti società negli Usa e in Europa e ciò ha accresciuto i timori dei Governi circa le possibili finalità strategiche degli investimenti dei Fondi medesimi» spiega lo studio della Consob. «Vi sono evidenze che è essenzialmente a causa di questi timori che gli Usa e molti paesi europei hanno introdotto normative a difesa dei settori strategici». Per farla breve, il sospetto che questi fondi perseguano qualcosa di più che una semplice attività di investimento lucrativo è così forte che sempre più paesi stanno correndo ai ripari, per evitare di vedersi soffiare quelle società e quelle aziende ritenute strategiche per l’interesse nazionale.

Per “strategiche” si intendono le imprese controllate direttamente o indirettamente dallo stato che operano nel settore della difesa, ma anche dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle infrastrutture, delle fonti di energia ma anche nell’erogazione di servizi pubblici in genere. Aziende la cui eventuale caduta sotto controllo straniero causerebbe al paese danni economici incalcolabili e, di fatto, una consistente perdita di sovranità. Al pari di un’occupazione militare da manuale, per l’appunto. 

Cosa si sta facendo per contrastare efficacemente il fenomeno? L’Italia, ammonisce la Consob, è in forte ritardo, e per giunta, nel tentativo di recuperare il tempo perduto, ha percorso le strade sbagliate. «L’Italia, diversamente dalla Francia e dalla Germania, anche negli anni di massima espansione dell’operatività dei fondi sovrani, ha preferito non dettare una disciplina generale a tutela delle imprese strategiche nazionali, intervenendo in tal senso soltanto recentemente, con l’emanazione del decreto legge 15 marzo 2012 n. 21», cita il report della commissione di vigilanza sulle borse. Prima del suddetto Dl esisteva una legge del 1994, poi modificata nel 2003, che conferiva all’autorità statale “poteri speciali” sulle privatizzate ritenute strategiche. La genericità di questi poteri attribuiti in capo allo stato, però, è costata al nostro paese ben due procedure di infrazione da parte della Commissione europea per «violazione delle disposizioni inerenti la libertà di movimento di capitali e di stabilimento». 

La nuova normativa sembra essere riuscita a coniugare la necessità di tutelare gli interessi nazionali con il rispetto delle regole europee sul libero scambio. Essa conferisce allo stato alcuni precisi poteri che possono essere esercitati, come cita il paper della Consob, «allorquando sussista la minaccia di un grave pregiudizio agli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale». Su tutti, tre in particolare: il potere di imporre specifiche condizioni relative alla sicurezza degli approvvigionamenti, alla sicurezza delle informazioni, ai trasferimenti tecnologici e al controllo delle esportazioni nei confronti di chiunque acquisti una partecipazione in imprese strategiche; il potere di veto rispetto all’adozione di delibere da parte dell’assemblea dei soci o del consiglio di amministrazione di una impresa strategica; infine, il potere di opposizione all’acquisto, in imprese strategiche e da parte di un soggetto diverso dallo stato o da enti pubblici italiani o da questi controllati, di una partecipazione tale da compromettere nel caso specifico gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale.

Può bastare? Forse. Per restare nell’ambito delle metafore militari, a questa “linea Maginot” della legislazione italiana manca ancora la prova del fuoco. E per il momento, lo shopping dei petrodollari sulle nostre eccellenze nazionali procede imperterrito, dalle banche alle griffe della moda, passando per gli alberghi della costa Smeralda. Il primo azionista di Unicredit è il fondo Aabar, con sede ad Abu Dabi, negli Emirati Arabi. Senza contare la Central Bank of Lybia, che detiene il 4,98%. Di questi giorni poi è il rumor del fondo sovrano del Qatar che vorrebbe acquisire la celebre casa di moda Valentino. Ok, scarpe e borsette non rientrano nel concetto degli asset strategici, ma le banche? Da qui ad un’eventuale arrembaggio a Finmeccanica o Eni, il passo è più breve di quanto si possa immaginare.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:56