Ma quanti sono i giovani disoccupati?

Se n’è accorto anche il Financial Times. Ha fatto la scoperta dell’acqua calda, ma meglio tardi che mai. «Abbiamo sbagliato i calcoli», dice l’autorevole quotidiano finanziario britannico. Dove? Nell’analisi sull’effettiva portata della disoccupazione giovanile in Europa. Perché? Il motivo è semplice: ci si è affidati a parametri totalmente inadeguati. A riportare la notizia del “ravvedimento” di FT, è stato Franco Debenedetti, la settimana scorsa, sulle pagine del Foglio.

Ma facciamo un passo indietro. «Come viene calcolato il tasso di disoccupazione?», domanda il Financial Times. «Semplice: prendendo il numero di disoccupati e dividendolo per il numero della forza lavoro complessiva». E il tasso di disoccupazione giovanile? Allo stesso identico modo. Solo che qui sorge un problema non da poco: quando si prende in analisi la fetta di popolazione al di sotto dei 24 anni di età, bisogna infatti considerare che la disoccupazione non è per forza legata alla mancanza di lavoro, ma, anzi, il più delle volte è condizionata dal fatto che i soggetti in questione si trovano ancora pienamente inseriti nel percorso di formazione scolastica e universitaria. E infatti, al netto di questa semplice ma basilare considerazione, i numeri della disoccupazione giovanile “reale” sono totalmente differenti.

Questo dato si chiama indice di disoccupazione giovanile, e rappresenta un passo in più rispetto al semplice tasso di disoccupazione giovanile riportato su tutti i giornali. In base a questa analisi, il Financial Times riporta ad esempio che «il tasso di disoccupazione giovanile in Spagna è al 48,9%, ma l’indice di disoccupazione giovanile è solo al 19%. Il tasso di disoccupazione giovanile in Grecia è del 43,9%, ma l’indice è di appena il 13%. Sia in Irlanda che in Italia il tasso di disoccupazione giovanile è al 30,5%, ma l’indice di disoccupazione giovanile è rispettivamente del 20,8% e dell’8,7%». Non saranno sicuramente cifre esaltanti, ma di sicuro sono ben lontane dall’apocalisse che tanto piace propinare alla stampa. 

Il fatto che il tasso (e non l’indice, si badi bene) di disoccupazione giovanile sia così alto è quindi un segnale positivo: significa infatti maggiore scolarizzazione, minor dispersione scolastica e, presumibilmente, una formazione migliore al momento del reale (e non solo statistico) ingresso nel mondo del lavoro. Nella Manchester di fine ‘800 il tasso di disoccupazione giovanile era sicuramente molto minore, ma si entrava in fabbrica a sei anni. Siamo sicuri fosse meglio allora?

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:49