Cambio di marcia per Italia e Germania

È sempre più evidente che economia e politica per quanto possano influenzarsi a vicenda debbano comunque assumere due distinti tratti caratteristici, ma purtroppo da quanto emerge nel panorama europeo ciò non sta accadendo e forse non accadrà mai.

Da tempo oramai il rigore nella politica di bilancio degli Stati membri dell’Unione europa pare abbia assunto, nei fatti, la supremazia sulla crescita di cui si discute solo a parole.

Il rigore nei conti pubblici, per quanto il debito eccessivo possa compromettere la “sopravvivenza” di alcuni Stati e il futuro dell’euro stesso, sembra essere diventato l’unico argomento della Cancelliera Merkel, forse più preoccupata per la riconferma alle prossime elezioni che per la compattezza dell’Unione Europea. 

Dall’ultimo vertice di Bruxelles è emerso in tutta evidenza l’isolamento del “primo della classe” e il fronte comune degli “ultimi della classe”. I padri fondatori dell’Ue certamente non avevano come obiettivo l’esclusione di alcuni Stati per compiacere la Germania ma al contrario intendevano gettare le basi per creare un mercato comune e più segnatamente una Comunità politica, economica e monetaria, forte e coesa. Di questo passo la strada è in salita. 

Se gli Eurobond rappresentano un problema per la Merkel, considerati i tassi irrisori con cui finanzia il debito pubblico, e di riflesso finanzia il suo sistema produttivo, è anche vero che aiuterebbero gli Stati più deboli e consentirebbero alla Germania di rafforzarsi ulteriormente sul piano delle esportazioni. Il default e l’uscita della Grecia dalla moneta unica rimane ancora una ipotesi plausibile e ciò se da un lato creerebbe un precedente dall’altro indebolirebbe gli altri Stati meno virtuosi senza risparmiare la Germania. 

Sarebbe anch’essa costretta a pagare un “prezzo” sia sul piano finanziario, alla luce dei crediti vantati nei confronti dei Paesi periferici, sia sulle esportazioni. Da considerare che per il 60% esporta in Europa. 

In assenza di crescita e in presenza di disoccupazione, e quindi con la riduzione dei redditi e dei consumi in prospettiva, chi acquisterà i prodotti tedeschi?  

Non è negli obiettivi di questa nota soffermarsi sulle politiche keynesiane e discutere se, a distanza di quasi un secolo, possano essere considerate ancora attuali o al contrario debbano essere archiviate definitivamente. E tanto meno si vuole disquisire sulla tesi dell’economista Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, e in particolare se abbia ragione o meno quando sostiene “spend now, pay later”. Il tutto si ridurrebbe ad una disamina sulla visione dell’economia che rimane pur sempre intrappolata tra Scuole di pensiero che muovono da presupposti ideologici differenti. 

E’ utile tuttavia ricordare che tutti gli economisti, o la maggior parte di essi, concordano sulla necessità di attuare politiche per la crescita nel breve periodo senza per questo minare il principio del rigore. 

La presente riflessione intende, al contrario, soffermarsi su alcuni punti di estrema comprensibilità anche per i non economisti.

E’ evidente che l’Italia soffre di un ritardo strutturale in materia di riforme necessarie a garantire la crescita nel lungo periodo, ma è anche vero che da anni nel nostro Paese non si realizza più un investimento infrastrutturale di rilievo che dia impulso all’economia nel breve periodo. 

Per realizzare le infrastrutture, le quali notoriamente assicurano una crescita dell’occupazione, dei redditi, dei consumi, dei risparmi, degli investimenti privati, e del gettito fiscale da un lato, migliorano la qualità dei servizi, aumentano la competitività e la capacità di attrattività dei capitali stranieri dall’altro, non necessariamente bisogna ricorrere solo all’indebitamento pubblico. 

Il debito, è noto a tutti, appesantisce il bilancio dello Stato facendo lievitare lo spread che da mesi non ci lascia riposare né di giorno e né di notte. 

Si potrebbe tuttavia raggiungere lo stesso obiettivo accelerando sulla strada dei project bond (tema anch’esso in realtà poco gradito dalla Cancelliera) e utilizzando il Partenariato Pubblico – Privato (PPP) che allo stato attuale rimane uno strumento marginale. 

Nonostante la crisi in atto, infatti, il PPP, il cui utilizzo era già trascurabile in passato, ha subito un decremento significativo nel corso degli ultimi anni quando avrebbe dovuto assumere un ruolo di propulsore proprio in questa fase. 

Pur non perdendo naturalmente di vista la strada della spending review, indispensabile per il nostro Stato che appare sempre più obeso, è essenziale porre la crescita al primo punto nell’agenda delle priorità, considerato che l’Italia non cresce più da anni, a prescindere se al governo c’è o non c’è il Cavaliere. 

La crisi sistemica che stiamo vivendo, da più parti considerata peggiore della Grande Depressione del 1929, è stata prodotta dalla speculazione finanziaria e la finanza continua a condizionare l’economia reale. 

L’iniezione di liquidità della Bce alle nostre banche pare non abbia sortito alcun effetto sul sistema produttivo. Le banche non finanziano le imprese ormai quasi al collasso: il settore delle costruzioni, comparto peraltro trainante, registra cali significativi e senza alcuna via d’uscita per il momento. 

La pubblica amministrazione paga i fornitori con tempi biblici: per la riduzione dei tempi e lo sblocco dei crediti confidiamo nel decreto e nella Direttiva comunitaria. 

La ricerca pubblica soffre di un gap rispetto ai partner europei e nelle Università il merito rimane ancora marginale rispetto alla baronia che rappresenta la forza trainante. 

L’indice di percezione della corruzione (Corruption Perception Index) è tra i più alti in Europa e del disegno di legge anticorruzione, a lungo dato per disperso, pare si stiano rinvenendo le tracce. 

Siamo tra i primi contribuenti al salvadanaio dei fondi europei pur utilizzandoli meno degli altri: i fondi tornano indietro per inefficienza o incapacità progettuale. 

La forbice Nord - Sud cresce a ritmi allarmanti sia sul piano dell’occupazione che della crescita. Il tasso di imposizione fiscale è il più alto in Europa e per le Piccole Imprese raggiunge quasi il 70% (Total Tax Rate: 68,5%). L’alfabetizzazione informatica è troppo bassa rispetto alla media Ue. E così via. 

Invece di concentrarci sulla crescita del Pil e utilizzare le risorse anche per i ritardi accumulati, la visione miope della Cancelliera, basata finora solo sul rigore di bilancio, quasi ci impone di prestare più attenzione allo spread che all’economia reale. 

Domanda: lo spread è davvero così accecante da farci retrocedere fino al baratro?

Se non ci sarà un cambio di marcia da parte dell’Ue, se non si anteporrà la crescita alle elezioni della Cancelliera Merkel, siamo destinati al declino e non per colpa di Berlusconi. 

Se poi dobbiamo sacrificarci tutti a pagare più tasse, a ridurre i consumi, a depauperare il risparmio, a rimanere disoccupati, ad accettare la svalutazione delle nostre case, e se dobbiamo restare con le mani legate dinanzi alle tante imprese che falliscono, agli imprenditori che ricorrono a gesti estremi e ai nostri giovani che emigrano continuamento all’estero in cerca di lavoro, per la crescita economica della Germania, che prima o poi diminuirà anch’essa in queste condizioni, almeno ci avvertissero.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:40