
È noto come in Rete sia possibile leggere di tutto. Negli ultimi anni, poi, quando si accenna ad una riforma del sistema delle intercettazioni, si scatenano “quelli del post-it”, i difensori della libertà di stampa “senza bavaglio” che sarebbe assicurata, a loro perverso modo di pensare, dalla pubblicazione di più colloqui telefonici possibile (meglio se di appartenenti “alla casta”) anche quando quei dialoghi niente hanno a che fare con l’inchiesta. Insomma una pseudo-libertà che, di fatto, limita la libertà più importante: quella personale, rappresentata (in questo caso) dalla libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione di cui la Costituzione riconosce l’inviolabilità.
Nei giorni scorsi, tramite appunto pubblicazioni di intercettazioni, è stato messo nel mirino finanche il Capo dello Stato. Oramai il meccanismo è più che rodato: dai Palazzi di Giustizia esce l’imbeccata, il giornalista amico pubblica il pezzo (ed il dialogo) strafregandosene di privacy, leggi e quant’altro. Poi arriva il Travaglio di turno e spiega che quei dialoghi telefonici potevano essere resi pubblici ma a farlo non è stata di certo la Procura «visto che si tratta di atti depositati agli avvocati». È una sorta di copia&incolla che viene fuori ogni qualvolta si leggono sulle pagine di alcuni quotidiani (generalmente sempre gli stessi) i testi delle intercettazioni telefoniche. Insomma i difensori – secondo questa corrente “di pensiero” – si diletterebbero a diffondere alla stampa le conversazioni telefoniche dei loro clienti, così tanto per gradire.
E anche sabato scorso la litanìa travagliesca, relativa appunto al presidente Napolitano, era pubblicata sul Fatto Quotidiano. In questo caso c’è, però, un elemento ostativo che risale al giorno prima allorquando, in un’intervista a Repubblica, il pm Di Matteo (uno dei titolari del fascicolo relativo all’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia) risponde così alla giornalista che gli chiedeva delle conversazioni riguardanti Napolitano: «Negli atti depositati non c’è traccia di conversazioni del capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti». Il dottor Di Matteo ammette l’esistenza delle conversazioni ma, nel contempo, fa sapere che non sono agli atti perché irrilevanti. E se non sono agli atti, si potrebbe dedurre e chiedere, come fanno ad averne le trascrizioni gli avvocati (almeno secondo Travaglio ed i suoi simili)? E se i legali degli imputati non ne sono in possesso, chi mai ne avrà fornito i testi agli organi di stampa amici? Vuoi vedere che, alla fine, ci tocca pure dare ragione a Casini secondo il quale l’attacco al Presidente della Repubblica non proviene da partiti politici ma «da schegge della magistratura che forse hanno obiettivi intimidatori».
Nota a latere. Siccome il quotidiano Il Tempo si era permesso di pubblicare un siffatto titolo “Il fango non piega Napolitano”, Travaglio (sempre sabato scorso) non si è lasciato sfuggire l’occasione per bastonare: «Si apprezza in particolare la sfida alle leggi della fisica: ora qualche disfattista che gioca allo sfascio – ha ironizzato il vice direttore del Fatto – può domandare come può il fango, materia molliccia quant’altre mai, piegare alcunché». Per una risposta più che esauriente, ci permettiamo di consigliare all’autore di porre il medesimo quesito dalle parti, che so, di Aulla, Monterosso, Vernazza e Borghetto Vara. E comunque spesso il fango può anche sporcare soltanto: ed è già di per sé inammissibile.
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:53