Ora le toghe dettano il piano industriale

Secondo i giudici, gli imprenditori non hanno il diritto di licenziare nemmeno i sabotatori: lo si è visto a febbraio, quando hanno ordinato alla Fiat la riassunzione di tre operai  accusati dall’azienda di aver bloccato un carrello durante uno sciopero. Ora le toghe sono andate oltre, imponendo al Lingotto la riassunzione di altri 145 operai, nonché il risarcimento di 3mila euro a 19 di loro, a fronte di una presunta discriminazione sindacale. 

Per i giornali da barricata si tratta di uno schiaffo a Marchionne e al suo modello imprenditoriale. A conti fatti, si rivelerà probabilmente il più bel regalo che potessero mai confezionare a Mr. Sergio: già, perché ora sarà difficile contraddire l’Ad col pullover quando questo deciderà di chiudere uno stabilimento dopo l’altro in Italia e trasferire tutta quanta la produzione all’estero. Dove magari non esistono sovvenzioni statali a fondo perduto erogate per decenni senza battere ciglio, verissimo, ma anche dove non sono sicuramente i tribunali a volere sempre l’ultima parola sui piani industriali, sugli accordi sindacali, sui ritmi di produzione, sulle assunzioni e sui licenziamenti. Illudersi poi che sia davvero soltanto un problema della Fiat e del suo presunto atteggiamento antisindacale significa non aver inquadrato il vero problema.

Risulta difficile immaginare una batosta peggiore della sentenza di ieri non solo per chi tenta di attirare investimenti industriali stranieri, ma anche per chi prova a dissuadere gli industriali italiani dal trasferirsi oltreconfine. E non sono certo solo le manie di protagonismo di questa o quella toga a scoraggiare le imprese. È l’intero sistema che non funziona, e che tra aberrazioni, lacciuoli burocratici, processi eterni e ingerenze inopportune costa all’Italia 5 punti di Pil. Senza contare l’ulteriore 1% annuo che secondo si perde a causa della cronica inefficienza della nostra giustizia civile. Il rapporto Doing Business 2012 redatto dalla Banca Mondiale piazza l’Italia all’ultimo posto in Europa, e al 158 posto su 183 paesi, per l’efficienza del sistema giudiziario nella risoluzione delle controversie commerciale: i procedimenti sono costosissimi, e servono mediamente 1.210 giorni per una sentenza, contro i 515 della Spagna, i 394 della Germania o i 300 degli Usa.

Anche per questo le aziende italiane non riescono a stare sul mercato: la palla legata al loro piede è troppo pesante, quindi o chiudono o scappano altrove. E i posti di lavoro fanno la loro stessa identica fine. A dispetto di quel che decidono le sentenze.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:52