Contiamoci: siamo la maggioranza

Ho riflettuto a lungo sul lucido, chiaro, organico articolo di Loris Facchinetti pubblicato martedì 19 luglio su L’Opinione. E ho trovato il pelo nell’uovo: perché c’era, e invalidava l’intero impianto analitico mirato alla domanda: e ora?

L’ho trovato nel titolo: “Contro la crisi, l’unica arma è il buonsenso”. No. Il titolo di quell’importante piattaforma che Loris ha posato sulla palude della scena politica e sociale italiana, avrebbe dovuto essere, deve essere: “Contro la crisi, l’unica arma è: contiamoci”

Noi non possiamo più permetterci di dire che cosa andrebbe fatto. E se parliamo di selezionare una nuova classe dirigente, dobbiamo sapere dove cercarla, e da quali persone responsabili deve essere composta. Lo sappiamo da decenni, lo sappiamo dal campo che abbiamo seminato e dal campo sul quale ci siamo battuti. Lo sappiamo anche dall’angolo nel quale ci siamo rintanati: mai per vigliaccheria ma per sfiducia sì. Lo sappiamo perché di quelle persone siamo parte, e non in virtù della menzogna che ci designa come società civile, ma della verità che ci fa sentire popolo.

Cominciamo da qui. Da questo singolare estremismo. Da questa comunità che Loris indica come missione del momento, come obbiettivo da raggiungere: e che dobbiamo avere la sfrontatezza di affermare come realtà. Perché la comunità c’è già, c’è sempre stata, e noi ne siamo parte, membri, vene, comune sentire, e prima ancora comuni radici, comune impatteggiabile fede.

Noi siamo l’immenso popolo che ha destino di lontananza dal potere. Noi non siamo tenuti insieme dall’appartenenza a ideologie né a religioni mondane né a interessi socioeconomici. Siamo tenuti insieme, anzi nutriti, dallo sguardo verso l’altro, dalla fiducia nella potenza dell’uguaglianza, dall’abissale distanza dalla carriera della sopraffazione. 

Siamo perfino tentati dal credere di essere il 99% degli italiani. Un popolo che si chiama volontariato (quello che non appare alla tv). Un popolo che si chiama studenti studiosi. Un popolo che si chiama vecchi col fuoco dentro, con immensi doni ancora da donare. Un popolo che si chiama giovani sfiduciati ma non raveggianti nei parchetti della droga e dell’alcol. Un popolo che si chiama donne e ragazze, la vera governance di questo paese in cui molto spesso gli uomini scappano e loro restano a governare la casa, a prendersi cura dei deboli. Un popolo che si chiama… disabili, che sono quasi sempre tutto tranne che disabili, e che spesso tengono insieme intere famiglie, che quasi sempre – quando non vengono scartati – curano e guariscono gli “abili” e i “sani”. 

No, non siamo il 99% ma siamo la maggioranza degli italiani. Bene. E allora? E ora che ci siamo contati? Allora facciamo la chiama. Cominciamo noi, qui. Montiamo bancarelle e capannelli, partiamo da Roma e da Milano, da Belluno e da Battipaglia, da Imperia e da Ferrara. Apriamo incontri in ogni città, facciamoci insegnare la via e la tecnica dalla grande comunità del volontariato, consideriamo l’Italia un intero paese di terremotati o alluvionati e organizziamo prima la speranza, poi la fiducia, infine la rappresentanza.

Il primo che parla di “elezioni” va messo da parte, in quell’uno per cento dei disperati che da mezzo secolo hanno fatto di tutto per ridurre un popolo a massa. È chiaro che non possiamo fingere di poter uscire dal pur malato sistema demoratico. E che quindi un giorno – prima possibile – di elezioni dovremo parlare. Ma prima di quel momento dovremo tutti insieme sapere e sentire di essere noi la classe dirigente, dobbiamo sapere che dirigere vuol dire assumersi la responsabilità, che assumersi la responsabilità non vuol dire gestire il potere. E che gestire una casa vuol dire prendersi cura. Cominciamo.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:35