La riforma che non piace ai riformisti

C'è qualcosa che non va nella riforma del lavoro firmata dal ministro Elsa Fornero. Perché quando una riforma non piace nemmeno ai riformisti, di destra o di sinistra che siano, è chiaro che qualcosa non funziona. E poco ne cale che il premier, Mario Monti, difenda il lavoro del suo ministro, definendolo «una riforma di profonda struttura».

Ieri al Senato la discussione sul Ddl lavoro si è fatta notare soprattutto per le assenze eccellenti. Come quella dell'ex ministro del welfare, Maurizio Sacconi, che ha scelto di non prendere parte al voto, eccezion fatta per quello sulla disciplina dei nuovi ammortizzatori sociali, che ha detto di condividere. «Con questo disegno di legge il governo ha accettato il presupposto degli oppositori della legge Biagi» ha dichiarato Sacconi. «Quel pregiudizio - ha proseguito - secondo cui le tipologie contrattuali flessibili sarebbero causa di comportamenti patologici dei datori di lavoro, pronti a cogliere ogni opportunità regolatoria per abusarne in danno dei lavoratori».

Ha scelto di non votare anche il pidiellino Marcello Pera. «Questa non è una riforma, è cultura di concertazione Cgil. Quello che mi dispiace - ha aggiunto - è che, fatta questa riforma, per decenni non se ne farà più alcun altra». Negativo anche il giudizio a distanza di Giuliano Cazzola, Pdl, vice presidente della commissione Lavoro della Camera: «È una legge sbagliata - spiega - non solo perché determinerà una maggiore rigidità complessiva del mercato del lavoro in un contesto di crisi economica e disoccupazione giovanile, ma soprattutto perché la disciplina del licenziamento individuale è un pasticcio».

Ma, dall'altra parte della barricata, anche Nicola Rossi, senatore ex Pd ora al gruppo misto, ha scelto di non mettere autografi in calce a una riforma che definisce senza mezzi termini «un'occasione mancata». Perché? Perché «la riforma del mercato del lavoro era necessaria prima di ogni altra cosa, per restituire certezze ad un sistema e ad un Paese in cui l'incertezza è la regola, la condizione di vita: incertezza per le imprese, per le quali era ed è semplicemente impossibile valutare ex ante i costi delle scelte di assunzione e di licenziamento; incertezza per i lavoratori, soprattutto per i più giovani, per i quali, nella maggior parte dei casi, era ed è impossibile pianificare percorsi di vita, in presenza di carriere lavorative spesso e volentieri discontinue, per motivi che non sempre hanno a che fare con esigenze della produzione o con l'ambizione dei singoli» ha aggiunto.

Il senatore Rossi non si è detto quindi stupito del fatto che, senza certezze per le imprese, scompaiano anche quelle per i lavoratori: «Il grado di flessibilità di un sistema, e in particolare del nostro, è in larghissima misura un vincolo esogeno nel contesto globale in cui operano le nostre imprese. Per dare maggiore certezza ai lavoratori, avremmo dovuto dare maggiore certezza alle imprese, mentre purtroppo abbiamo scelto di non fare né una cosa né l'altra, perdendo così un'ulteriore - l'ennesima - grande occasione». E così, lamenta Rossi, persino la difesa dello Statuto dei Lavoratori si è trasformata nella protezione dei privilegi di chi i lavoratori li rappresenta. I sindacati, ça va sans dire.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:51