
E se l'Europa non piacesse nemmeno agli europei? E se la crisi
economica avesse messo tutti quanti, da Tallin a Lisbona, da Roma a
Londra, da Atene a Parigi, davanti al dato di fatto che questa
Europa dei burocrati e delle banche non è affatto l'Europa dei
popoli e delle nazioni sognata da Robert Schuman e Altiero
Spinelli? Mercoledì scorso si celebrava la Festa dell'Europa, in
occasione del 62° anniversario della Dichiarazione Schuman, il
primo discorso ufficiale in cui comparve il concetto di Europa come
unione economica e politica. Ma cosa c'è davvero da festeggiare?
Secondo Nigel Farage, eudoreputato britannico divenuto famoso in
Italia per i video dei suoi caustici interventi in aula ripresi da
YouTube, poco o nulla.
«Ma cosa festeggiamo oggi? La prigione economica dell'euro o il
Titanic dell'Ue che si schianta contro l'iceberg?» domanda Farage
ai colleghi deputati riuniti per la sessione plenaria. «Quanti tra
coloro che oggi celebrano la Festa dell'Europa con parole
altisonanti e frasi ad effetto credono davvero in quel che dicono?»
si chiede l'europarlamentare inglese. «Vediamo crescere gli
estremismi di destra e sinistra. Potrebbe voler significare il
ritorno dello spettro socialista in Europa. Volevamo l'Europa del
libero commercio, invece abbiamo Europa della tecnocrazia. Volevo
un'Europa fondata sul libero scambio e la cooperazione, ma oggi non
mi riconosco in questa bandiera».
Ci hanno sempre detto che facciamo male a diffidare di Bruxelles,
che soltanto noialtri brontoloni dello Stivale ci meritiamo
l'appellativo di "euroscettici", mentre nel resto d'Europa è tutto
un guardare con fiducia e speranza al futuro della grande
istituzione continentale. Ci hanno sempre detto un sacco frottole.
E non solo perché ad Atene stanno sperimentando sulla propria pelle
cosa significhi la tecnocrazia europea. Ma anche perché a Madrid, e
persino a Parigi e a Londra, condividono le nostre stesse
preoccupazioni.
Bruxelles ne ha discusso proprio il 9 maggio scorso con un
parterre internazionale di eurodeputati, intellettuali e
giornalisti. Al centro del dibattito, e non poteva essere
altrimenti, la crisi economica. Parlare del futuro dell'Unione
Europea senza affrontare quell'episodio che per primo l'ha
squassata sin dalle fondamenta, arrivando persino a metterla
seriamente in discussione, sarebbe stato impossibile. Daniel
Cohn-Bendit, eurodeputato verde, è francese, ma è tra coloro che si
scagliano con più veemenza contro l'idea di Europa così come è
stata ridisegnata dal tandem Merkel-Sarkozy. «È arrivato il momento
che italiani e spagnoli escano dal torpore e la smettano di seguire
il direttorio franco-tedesco» dice, sottolineando con forza la
parola "direttorio".
«Oggi - spiega Cohn-Bendit - si parla soltanto di crisi economica,
ma esiste un vero e proprio pericolo democratico per l'Unione
Europea: abbiamo un esecutivo che non contratta con i paesi in base
a quello che possono o non possono sopportare, ma in base a quello
che interessa o non interessa alla Germania. Ora nel centro del
mirino è finita la Grecia e il suo enorme debito, ma fino a che
Atene contraeva debiti per comprare armi dalla Germania il problema
non c'era». Non si tratta solo di una questione economica. Alla
base c'è un grave scollamento tra le azioni delle istituzioni
europee e le reali esigenze dei cittadini. Bruxelles è sì
equidistante da ogni angolo d'Europa, ma nel senso che è percepita
come lontanissima da chiunque. «È vero che in questo frangente
dobbiamo occuparci di un problema di instabilità economica, ma
stiamo seriamente rischiando di andare incontro ad una forte
instabilità politica» dice l'eurodeputato francese. «Occorrono
soluzioni che non cadano dall'alto, ma diano alle popolazioni
almeno l'impressione di essere state ascoltate».
Jose Ignacio Torreblanca, editorialista di El Pais, spiega quanto
stia diventando sempre più difficile spiegare le dinamiche europee
in un momento in cui l'opinione pubblica di ogni paese si rivolge
alla politica nazionale, guardando a Bruxelles con sempre maggiore
diffidenza. La caporedattrice di France 3, Véronique Auger,
racconta quanto in Francia sia percepita come abissale non solo la
distanza tra cittadini ed istituzioni europee, ma addirittura tra
gli eletti all'europarlamento e i loro stessi elettori. Poi tocca a
Mario Sechi, direttore de Il Tempo. Nelle ultime settimane ha
dedicato alla politica economica europea editoriali e tweet al
vetriolo. Schierato dalla parte del popolo greco nel braccio di
ferro sugli aiuti in cambio delle riforme e del rigore, ha più
volte redarguito l'atteggiamento tedesco. La scorsa settimana
scriveva su Twitter: «Il ministro delle finanze tedesco Schauble
continua a minacciare i greci. Non ha capito niente.
Il popolo brucia la casa di chi lo affama». E il 9 maggio, a
Bruxelles, nonostante l'occasione dovesse essere festosa, i toni
del suo intervento non sono cambiati. «È dal 2008, da quando la
crisi è iniziata, che scrivo che senza un colpo d'ala l'Europa è
destinata a diventare un malato incurabile» esordisce. «Il voto in
Grecia, ma anche il voto in Francia, un voto per la Francia e
contro la Germania, ci dicono una cosa: Nations are back».
L'interesse nazionale è ritornato in primo piano rispetto a
qualunque prospettiva europea. E non potrebbe essere diversamente:
«Ci sono 200 milioni di persone in cerca di lavoro. È un problema
sociale, che se non affrontato, però, può trasformarsi in una
guerra sociale» dice Sechi. Secondo il direttore de Il Tempo,
l'Europa deve darsi tre parole d'ordine fondamentali: «Innanzitutto
il lavoro, che non c'è. Poi la crescita, evocata come un fantasma e
mai attuata». E l'ultima? Le banche.
«Dobbiamo finirla di fare gli ipocriti. Qualche anno fa per
salvare la Grecia sarebbero bastati 50 miliardi di euro. Una
bazzecola. Allora, però, non si è voluto intervenire perché le
banche e gli speculatori non volevano rimetterci. E tutti così
hanno continuato a comprare debito greco pur sapendo benissimo che
era insolvibile». «La crisi - prosegue Sechi - non nasce
nell'economia reale, ma nella finanza. È arrivato il momento per le
banche di cominciare ad assumersi i propri rischi e cominciare a
fallire. Invece oggi le banche tedesche e francesi che hanno
investito in Grecia stanno scaricando i costi dell loro operato
sulle spalle dei contribuenti greci ed europei. Il risultato è che,
secondo l'Unicef, oggi in Grecia quasi 500mila bambini soffrono la
fame. È questa l'Europa di Spinelli e Schuman. È questa l'Europa
che volevamo? È questa l'Europa che sognavamo?». E l'Italia?
Per Mario Sechi, siamo in grandissimo pericolo. «All'inizio ho
creduto molto in Monti, ero uno dei suoi tifosi più sfegatati. Ma
la ricetta tecnocratica e rigoristica sta affondando l'Italia. Se
il problema è la recessione ma si porta la pressione fiscale al 46%
senza tagliare la spesa pubblica, la recessione non rallenta.
Questa ricetta ucciderà l'Italia, e poi la Spagna, e poi il
Portogallo, fino a distruggere l'intera Unione Europea». Sechi è
pessimista: «Non so se l'Italia si salverà. È la terza economia più
forte d'Europa, ma ha anche il terzo debito pubblico più grande del
mondo. Di una cosa però sono certo: se l'Italia cade, l'Europa
smetterà di esistere».
Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:57