La politica italiana ostaggio di due sinistre

I siluri che Mario Monti continua a lanciare sui partiti dal suo roadshow asiatico dimostrano che il premier non si sente affatto al sicuro. Dopo aver avvertito che non è disponibile a «tirare a campare», che può lasciare anche prima del 2013 se partiti e sindacati non sono «pronti» per le riforme, fa notare che «questo governo sta godendo di un alto consenso, i partiti no». Si dice «fiducioso» che la riforma del lavoro passerà, e che la gente ne percepisce la necessità, convinzione espressa anche da Napolitano. Monti avverte che si sta allentando la sua presa sui partiti e cerca di recuperarla, aiutato dal capo dello Stato, ma potrebbe essere già troppo tardi.

L'accordo di massima uscito dal vertice ABC sulle riforme istituzionali e la nuova legge elettorale dovrebbe scongiurare l'ipotesi di elezioni anticipate a ottobre, verso cui secondo qualche retroscenista spingerebbe il Pd, e addirittura gettare le basi per una Grande Coalizione "montiana" nel 2013. Ma allo stesso tempo proprio quell'accordo conferma il ritorno dei partiti, con tutti i rischi che ne derivano per le riforme ancora da approvare.

Il governo Monti quindi potrebbe aver esaurito la sua spinta riformatrice, nonostante il bottino ancora piuttosto magro e la crisi tutt'altro che alle spalle. Se l'irrigidimento del Pd sull'articolo 18 è solo campagna elettorale, o il grimaldello per indurre Monti a lasciare e tentare una "rivoluzione d'ottobre", lo scopriremo solo dopo il voto amministrativo. Di certo a fine luglio sul reintegro qualcuno dovrà cedere. Ma lo scontro sulla riforma del lavoro è sintomatico del paradosso della politica italiana. La riforma è di stampo socialdemocratico: costosa e punitiva sulla flessibilità in entrata, cede alla retorica della "lotta alla precarietà", mentre cerca una soluzione appena più realistica di quella attuale sui licenziamenti e gli ammortizzatori. A lamentarsene dovrebbe essere il Pdl, la cui politica economica però è di marchio cristiano-socialista. Invece è attaccata da sinistra. Nessun partito nello spettro politico italiano fa propria una posizione liberale. Il che implicherebbe sostenere apertamente, pubblicamente, senza sudditanza culturale, che il lavoro non è un diritto, ma una merce, sotto forma di prestazione d'opera; che, come per tutte le merci, prezzi e condizioni sono regolati dalla domanda e dall'offerta. E, quindi, denunciare una Costituzione collettivista che affermando il contrario condanna questo Paese ad una vera e propria tara ideologica e giuridica, che impedisce ai governi di mettere a punto (e ai cittadini di accettare) un assetto compatibile con i più elementari e nient'affatto "selvaggi" principi di una normale economia di mercato.

Dunque, l'offerta politica italiana consiste da una parte in una socialdemocrazia riformista, responsabile, che nelle sue diverse declinazioni (governo Monti-Fornero, Pdl, Terzo polo e una parte minoritaria del Pd) tenta di apportare correttivi al sistema ma senza intaccare il perimetro e il peso dello Stato, anzi con lo scopo di perpetuarlo, e dall'altra in una sorta di "partito Grecia", che spinge per la "vera" svolta a sinistra, un biglietto di sola andata verso la Grecia.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:50