Preannunciata da numerosi romanzi e da memorabili film di fantascienza, l’intelligenza artificiale (Ia) è ormai fra noi, come realtà d’uso comune, specie fra i più giovani, adottata negli ambiti i più vari. Si è, infatti, affermata come strumento tanto potente, quanto versatile: essa è impiegata con sempre maggior diffusione e successo nello studio, nel lavoro, sia in contesti previsionali (scenari economici, andamenti atmosferici, proiezioni borsistiche sui corsi di qualunque merce) che in contesti computazionali (la redazione di un articolo, di un romanzo, di un saggio). Persino lettere e poesie d’amore possono essere affidate all’Ia, sicuri di non sfigurare.
L’ Ia non è una mera macchina, una sorta di super computer, né un software particolarmente raffinato; piuttosto è il “combinato disposto” di microchip integrati sempre più evoluti con software sempre più avanzati, capaci insieme di realizzare una potenza di calcolo mai raggiunta prima. In concreto, questo si traduce in una straordinaria rapidità e capacità di analisi dei testi presenti nell’universo di internet, e di generare un elaborato d’uso immediato (sintesi, mappa d’apprendimento, report ecc.), nel giro di qualche decina di secondi. E questa non è che la funzione più comune e semplice.
L’ultima versione del chabot più conosciuto al mondo, Chat Gpt, versione attesa con ansia dai cibernauti di mezzo mondo (ad inizio 2026 supereranno il miliardo di utenti) è capace di generare molteplici elaborati, tutti interattivi con i più diversi applicativi di internet: non solo redige testi, ma crea immagini, realizza filmati, si espande nella creazione di giochi, di nuovi siti personalizzati, webbapp e molto altro. Se queste funzioni erano, in forma più o meno avanzata, già presenti nelle versioni precedenti, in questo caso ciò che desta sorpresa è l’ecletticità declinativa delle configurazioni finali, che non solo sono sempre più puntuali e specifiche alle richieste dell’utente, ma anche sempre più verosimili, tanto da rendere oltremodo difficile riconoscere e scindere l’artefatto dell’Ia dal prodotto realizzato da mente umana.
Inoltre, sono state implementate le “personalità” con cui Ia riesce ad interfacciarsi con l’utenza, potendo disporre di cinque impostazioni: “Predefinita”, “Cinica”, “Robot”, “In ascolto” e “Nerd”.
Quello che cambia non sono tanto i contenuti delle risposte che fornisce, quanto il tono delle risposte stesse e il linguaggio impiegato che è conforme alla personalità scelta e risulta essere diversissima. Inoltre, a differenza delle versioni precedenti, adesso l’Ia nel corso di una conversazione, riesce a “rendersi conto” quando non è in grado di rispondere in modo corretto ovvero solo parziale, e lo dichiara. In questo modo si evitano le famose “allucinazioni” ossia il confezionamento di risposte inesatte, approssimate o errate. E tale passaggio sarà il tassello fondamentale per poter apprendere le nozioni mancanti, anche semplicemente situazionali, dall’utenza stessa…
Quello che sta accadendo è un’evoluzione del protocollo stesso dell’Ia che è in trasformazione verso l’intelligenza artificiale generale (o Agi), quella che dovrebbe eguagliare la capacità di ragionamento dell’essere umano. E tale progresso nella capacità analitica dell’Ia fa si che essa possa essere utilizzata negli impieghi i più diversi, non solo quelli canonici (comunicazione, economia, computazionali), ma anche avanzati come nelle indagini della scientifica, nelle strategie industriali delle multinazionali, ovvero in contesti di guerra.
Ma anche, purtroppo, per intenti criminali, che possono partire dal dark web, ma poi arrivano in forma penetrante nella vita quotidiana di tutti noi, dalle truffe on line, ai furti dei conti correnti: se la capacità dell’Ia evolve, si potenzia e si raffina, prima o poi riuscirà anche a decodificare i codici di sicurezza criptati?
Il fenomeno che oggi si va affermando con maggior evidenza è quello di una specializzazione settoriale dell’Ia, ossia declinata negli specifici campi di utilizzo, al fine di costituire un applicativo avanzato che possa risponder nel modo il più soddisfacente possibile in ciascun campo professionale.
L’interazione con macchine sempre più progredite, e perciò più satisfattorie per l’utenza, porterà ad una crescente dipendenza che causerà cambiamenti strutturali nelle persone. In primis il ruolo e le capacità delle persone andranno progressivamente a scemare, perché l’Ia risponderà in tempi più brevi, più economici e più performanti di qualunque uomo anche il più preparato. Ma anche nei rapporti con gli altri, la dipendenza con la macchina si rivelerà oltremodo condizionante, perché saremo portati a richiedere al nostro prossimo un’immediatezza di comportamento che è proprio di un algoritmo e non quello di altro essere umano con tutte le sue dinamiche personali. Quindi, oltre alle capacità intellettive, cos’altro perderà l’uomo del XXI secolo?
Forse si assottiglierà, fino all’esaurimento, anche la maturità emotiva, perché l’utenza sarà viziata da una costante immediatezza di risposte satisfattorie? Saremo dunque condannati ad un infantilismo perenne, condizione prodromica ottimale per scatenare la conflittualità? Perderemo anche la nostra sensibilità, requisito che più di ogni altro ci rende umani?
Tali interrogativi sono stati al centro del dibattito che si è tenuto a Roma, la scorsa settimana, nel salotto di “Cadmo e Armonia”, guidato dall’avvocato la signora Carlotta Ghirardini. Il dibattito su intelligenza artificiale e umanità, le sue implicazioni e i suoi effetti sulla sensibilità umana, ha raccolto interventi di importanti figure del panorama accademico, giuridico e mediatico. Il salotto ha visto la partecipazione l’avvocato Fabrizio Abbate presidente del salotto dell’intelligenza artificiale di Enia (Ente nazionale Intelligenza Artificiale), il regista Enzo Antonio Cicchino (già assistente dei fratelli Taviani e, precedentemente autore Rai), il giornalista Marino Collacciani, che di recente ha ricevuto il premio Armando Curcio, e autore di vari scoop e best seller, il Conte Carlo Piola Caselli. Hanno preso la parola anche i pluripremiati poeti Pierluigi Sabatini, con la sua testimonianza di ritorno da Gaza, Aurelio Bettini, l’autrice teatrale Antonella Pagano, la giornalista volto Rai, Mariù Safier.
Nel corso dell’incontro dedicato al rapporto tra poesia e intelligenza artificiale, i diversi autori e intellettuali si sono confrontati su un tema che tocca la sensibilità più profonda del nostro tempo: il confine tra la creatività umana e la potenza algoritmica delle nuove tecnologie. Ne è emerso un dibattito intenso, colto, in cui la riflessione letteraria si è intrecciata con quella filosofica e perfino etica. Si è trattato di una riflessione interdisciplinare, che ha confrontato esperienze di vita, con analisi storiche, tecnologiche e filosofiche.
La padrona di casa, l’avvocato Carlotta Gherardini, che ha magnificamente diretto tutte le conversazioni del salotto, ha introdotto come primo oratore l’avvocato Fabrizio Abbate, presidente del salotto dell’intelligenza artificiale di Enia, autore prolifico, ha presentato alcuni dei suoi ultimi lavori: NeoEvo libro voluminoso, che descrive in forma di romanzo, la nuova era contraddistinta dall’intelligenza artificiale, al quale si aggiungono romanzi gialli fra cui ricordiamo Extrafallace e Astrolia e il segreto delle tre cattedrali. Tutti sono incentrati nel confronto-scontro fra il potere crescente e totalizzante dell’Ia e la difesa dell’integrità della persona umana, nell’esercizio delle sue libertà e nella difesa della sua autonomia.
La sfida dell’intelligenza artificiale è epocale e non si tratta della terza o quarta rivoluzione industriale, bensì è la sfida alla propria intelligenza, alla capacità cognitiva che contraddistingue e lo eleva rispetto a qualunque altra creatura oggi nota.
La questione è potenzialmente molto seria perché l’Ia si espande ovunque, ha una forma anonima e la minaccia di controllo più o meno diretto è pari o superiore a quello di una guerra atomica.
In quest’ultimo caso, infatti, le élite di comando sono poche, dalla condotta codificata, ed il rischio è sottoposto a controlli internazionali. Nel caso dell’Ia, invece, tutto questo è mancante, come è mancante sia la percezione del pericolo presso l’utenza, sia la capacità di reazione delle istituzioni all’avanzare della pervicace intromissione dell’Ia nei data base mondiali.
Ha poi preso la parola il regista Enzo Antonio Cicchino che ha presentato il suo libro dal titolo Univero concepito, nell’intuizione originaria, lo scorso secolo, ma completato solo recentemente, grazie all’apporto di Chat GPT-5. Elemento di grande rilevanza è stata scelta che l’autore ha fatto di interrogare direttamente la IA su se stessa, ossia al modo in cui si vede! Essa è stata capace di rispondere in modo congruo, offrendo una visione coerente della realtà e di se stessa. Non è stata espressiva di un’identità, ma certamente di un’intelligenza somigliante a quella umana.
Per quanto disarmante è il “nuovo” che avanza e per il quale dovremo essere preparati secondo un approccio non ostativo, ma più accogliente come avviene nelle culture orientali. Fondamentale sarà il ruolo dei docenti nell’educare all’uso consapevole della tecnologia i giovani, protagonisti già da adesso del nostro futuro prossimo venturo.
È seguito poi l’intervento del Conte Piola Caselli che ha sorpreso l’assise con uno scoop: ha svelato la prima apparizione nella storia di un drone, ben 316 anni fa! Si trattava di una sorta di aerostato ad aria calda, presentato da padre Bartolomeu Lourenço de Gusmao al re del Portogallo, Giovanni V e al nunzio apostolico mons. Michelangelo de’ Conti, il futuro Papa Innocenzo XIII.
Questo antesignano del dirigibile aveva la forma, in disegno, di una sorta di “barcarola”, così appositamente rappresentata per indurre la controparte politica o bellica a non temere sulla sua riuscita. Infatti, anche un fanciullo si sarebbe reso conto che il manufatto non avrebbe mai preso il “volo”. Ma appunto si trattava di una mistificazione, una sorta di “fake news” in quanto non si voleva allarmare i vicini, potenziali nemici, sulla capacità reali di un pallone nel farsi arma da guerra e bombardare dall’alto le fortezze nemiche.
L’aneddoto è servito al Conte Caselli per mettere in guardia, specie in tempi di guerra come quelli che stiamo vivendo, sul potere condizionante delle “fake news”, create ad arte e ripetutamente da un chabot e sulla base delle quali, se credute, si assumono decisioni reali che possono avere effetti nefasti sulla vita quotidiana di ognuno di noi. Basti pensare ai corsi, oltremisura rialzisti, dei prodotti energetici, triplicati nel valore per effetto della speculazione che ipotizzava una penuria delle merci a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, penuria che poi non si è mai verificata in nessun mese dell’anno!
L’illustre giornalista Marino Collacciani ha presentato il suo ultimo libro l’Arte della buona scrittura chiarendo che: “Essa è una declinazione del linguaggio parlato attraverso i format giornalistici”. Nel libro viene rivalutata l’importanza dello scrittore e l’uso appropriato della lingua scritta, specie di quella italiana che è la più bella del mondo! E per essere un buono scrittore occorre avere un’autonomia culturale (e morale) rispetto allo strapotere di internet, dei social e, soprattutto, dell’Ia. Al riguardo di quest’ultima Collacciani ha insistito chiarendo la distinzione tra uso funzionale, meramente appagante dei bisogni e generativo di dipendenza, e quello critico, cioè consapevole, capace non solo di autonomia, ma anche e soprattutto di un apporto personale al lavoro. L’intelligenza artificiale deve rimanere un supporto, e non trasformarsi in un sostituto dell’esperienza umana, a pena di un completo svuotamento della bellezza creativa dell’ingegno umano. Del resto, nel giornalismo, il centro della narrazione, rimane la notizia, cioè il “fatto nuovo” di cui il professionista è venuto a conoscenza, magari con faticose ricerche e impegnative indagini.
Inoltre, abusare dell’Ia e dei social porta ad un’involuzione della lingua e a un decadimento delle facoltà cognitive che sono sempre più atrofizzate dall’invasività del software. Cui si aggiunge la problematica sempre più urgente della dipendenza. Come sottrarsi, allora, dall’assordante accerchiamento degli “algoritmi pseudo-intelligenti” che assorbono l’utente disconnettendolo dalla coltivazione delle relazioni interpersonali?
L’esempio dei cellulari in metro è esemplare! Al contrario, la comunicazione è scambio, co-partecipazione fra le parti che, appunto, si scambiano informazioni e riflessioni, come anche sentimenti e stati d’animo; la comunicazione è un dono, base della civiltà umana.
Di poi è stato invitato a proseguire la riflessione il poeta Aurelio Bettini, il quale ha raccontato un episodio personale che sintetizza, in modo ironico e insieme rivelatore, il nodo centrale del dibattito. Durante una cena, sua moglie ha letto una delle sue poesie e qualcuno le ha chiesto se fosse stata scritta con l’intelligenza artificiale. L’autore, anziché offendersi, ha colto l’occasione per riflettere sulla natura stessa della creazione poetica nell’epoca digitale. Bettini ha poi raccontato di aver voluto “sfidare” un sistema di intelligenza artificiale, chiedendogli di proseguire una sua poesia d’amore. Il risultato non lo ha convinto: i versi generati dalla macchina non avevano la stessa intensità emotiva, non custodivano quell’esperienza vissuta che per lui è l’essenza stessa della poesia. Da qui la sua convinzione che la tecnologia, per quanto sofisticata, non possa sostituire la sensibilità dell’uomo. L’autore, tuttavia, non si pone in opposizione alla macchina. Anzi, invita a considerare l’intelligenza artificiale come una creazione dell’uomo, un riflesso del suo genio inventivo. Secondo Bettini, ogni progresso tecnologico nasce da un atto d’amore verso la conoscenza, e per questo deve essere accolto con curiosità e non con paura. Ma sottolinea che il nome stesso di “intelligenza artificiale” è improprio: l’intelligenza, dice, è e resta umana, perché appartiene solo a chi sa trasformare l’esperienza in consapevolezza.
È stata quindi la volta dell’intervento della scrittrice e giornalista Mariù Sapier che ha offerto invece una prospettiva diversa, scegliendo di rimanere ancorata a un tempo storico precedente alle rivoluzioni tecnologiche. Nel suo romanzo La Steccaia, ambientato tra il 1965 e il 1985, ha deliberatamente evitato ogni riferimento all’era digitale, come forma di resistenza e di recupero della memoria. Non per rifiuto della modernità, ma per riaffermare che la scrittura nasce dalla mente e dal corpo, non da un algoritmo. Sapier riconosce i meriti della tecnologia e ne comprende il valore nel campo tecnico e scientifico, ma difende con fermezza il primato dell’esperienza e della fisicità della scrittura. Per lei la poesia non può essere composta al computer: nasce solo dal contatto diretto tra penna e carta, in quel gesto che lega il pensiero al movimento. È un atto fisico e spirituale insieme, in cui la parola si fa estensione dell’anima. Richiamando il filosofo francese Teilhard de Chardin, la scrittrice ha ricordato che l’uomo non potrà mai superare del tutto i propri limiti biologici e spirituali. “L’intelligenza artificiale ˗ dice ˗ rappresenta la tensione verso il superamento di questi confini, ma non potrà sostituirsi alla nostra interiorità. Se le macchine apprendono dalle esperienze umane, allora, senza l’uomo, anche esse cesserebbero di esistere”.
Infine il poeta e saggista Pierluigi Sabatini ha chiuso il dibattito con un intervento dal tono più filosofico e politico. Autore di saggi sull’intelligence e la governance, ha riflettuto sulle conseguenze normative e sociali dell’intelligenza artificiale, richiamando la necessità di una regolamentazione che eviti derive etiche e occupazionali. Secondo Sabatini, il futuro delle democrazie dipenderà dalla capacità di gestire le trasformazioni operate dagli algoritmi.
Appena rientrato da Gaza, Sabatini ha proposto un parallelo tra l’esperienza diretta sul campo e la riflessione sulla tecnologia: come nel giornalismo, anche nell’uso dell’intelligenza artificiale è necessario “vedere con i propri occhi”, non affidarsi solo alle narrazioni mediatiche o alle elaborazioni automatiche. Solo chi vive le situazioni può comprenderne davvero la complessità e restituirne la verità umana.
Tornando al tema principale, Sabatini ha descritto l’intelligenza artificiale come uno strumento neutro, che può diventare sia risorsa sia minaccia a seconda dell’uso che se ne fa. La sua analisi si spinge oltre il piano tecnico, verso una riflessione metafisica: per quanto potenti, gli algoritmi restano limitati rispetto al linguaggio olistico e simbolico della tradizione umana, quello stesso linguaggio che le religioni monoteiste avevano intuito come principio universale di senso. Secondo Sabatini, la differenza tra l’intelligenza artificiale e la mente umana risiede nella capacità di intuire, di creare relazioni di significato non deducibili da un calcolo. Anche i più avanzati computer quantistici, spiega, non riescono a riprodurre quella dimensione sintetica e simultanea del pensiero olistico, che consente all’uomo di prevedere, immaginare, creare.
In chiusura, Sabatini ha evocato la teoria del “presente costante”, riprendendo le riflessioni di Stephen Hawking: il passato e il futuro sono solo proiezioni mentali, esiste solo un presente in continuo divenire. Un concetto che ben si adatta al rapporto tra uomo e tecnologia, dove ogni aggiornamento – come quello dei sistemi di intelligenza artificiale – rivela l’imperfezione precedente e l’infinita ricerca di una verità mai definitiva.
Nel complesso, il confronto tra i relatori ha delineato una visione lucida e articolata del nostro tempo, per la quale emerge una consapevolezza condivisa: la tecnologia non è un antagonista, ma un riflesso dell’uomo stesso. Tuttavia, solo l’esperienza, la sensibilità e la parola possono darle un senso. In questo equilibrio fragile e affascinante si gioca il destino della creatività nel XXI secolo.
Aggiornato il 24 ottobre 2025 alle ore 12:45
