C’è un momento, leggendo L’algoritmo bipede di Martina Ardizzi, in cui si smette di pensare alla tecnologia come a qualcosa di “fuori da noi”. Perché il libro fa esattamente questo: mette in crisi la distanza tra corpo e cervello, tra mente e macchina, tra umano e artificiale.                                                Con uno stile limpido ma mai semplificato, Ardizzi − neuroscienziata con una visione rara di equilibrio − ci accompagna in un viaggio dentro la cognizione incarnata, quella teoria che “denuncia proprio come i nostri processi cognitivi non siano isolati dal corpo, ma anzi vi siano profondamente radicati”. Il linguaggio, ad esempio, non è solo suono e sintassi: è gesto, memoria muscolare, percezione. Ogni parola evoca un’esperienza corporea. Il cervello non traduce, rivive. Da qui parte una riflessione più ampia: cosa succede quando a parlare non è più un essere umano, ma un chatbot?

Ardizzi non demonizza l’intelligenza artificiale, ma la guarda con precisione chirurgica: “I chatbot possono simulare il linguaggio umano in modo convincente, ma mancano di una vera esperienza incarnata”. In altre parole: possono imitare, ma non sentire.                                                                                                      Il saggio si muove tra neuroscienze, antropologia e filosofia, mostrando come l’evoluzione umana sia stata, da sempre, un processo di co-costruzione con la tecnologia.                                       “L’accelerazione del processo evolutivo del cervello è dovuta in una parola alla co-evoluzione di tecnologia, mente e corpo”. Gli strumenti che creiamo modificano l’ambiente, che a sua volta modella il cervello. Le nostre mani hanno plasmato pietre e tastiere, ma nel frattempo quelle stesse pietre e tastiere hanno rimodellato il nostro pensiero.                                                                                                         

Ardizzi si chiede: “Ma in quale nicchia evolutiva abitiamo oggi?”. La risposta non è univoca, ma suggestiva: abitiamo una nicchia digitale, in cui internet, le tecnologie immersive e l’intelligenza artificiale stanno riscrivendo la struttura stessa della mente umana. E non sempre in modo distruttivo. “È necessario uscire da una logica valutativa per abbracciarne invece una adattiva”: il cervello si adatta, ricicla le stesse reti neurali della socialità fisica per vivere quella online.                                                        L’autrice si sofferma sulle tecnologie immersive − quelle che “simulano corpi, oggetti e ambienti reali” − spiegando come, oltre all’intrattenimento, abbiano applicazioni terapeutiche ed educative. Nei pazienti emiplegici, per esempio, “ciò che si osserva nell’ambiente virtuale induce processi neuroplastici che sostengono e aiutano il recupero del paziente”. È il cervello che impara, ancora una volta, a credere all’illusione per guarire.                                                                                                                   Quando Ardizzi parla di intelligenza, lo fa in termini integrativi: la tecnologia non ci sostituisce, ci estende. “L’intelligenza artificiale esercita e eserciterà la sua azione protesica alla cognizione umana”. Un’estensione che ci rende “animali funzionalmente tecnologici”, ma che − avverte l’autrice − potrebbe presto trasformarci in “animali ontologicamente tecnologici”.                                                                                  È in questa soglia che il libro diventa quasi poetico. “La tecnologia parla la stessa lingua incarnata dei sensi e del corpo dell’uomo che l’ha progettata”, scrive Ardizzi, chiedendosi se il nostro cervello sia “sufficientemente plastico da integrare l’esperienza data da uno strumento tecnologico”.                           La domanda che vibra in sottofondo è quella più radicale: che cos’è squisitamente corpo e che cos’è tecnologia?                                                                

L’algoritmo bipede non offre risposte facili, e per fortuna. È un libro che spinge il lettore a pensarsi come un ibrido in continua trasformazione, un essere in cui la carne e il codice si rincorrono e si ridefiniscono a vicenda.                                                                                                                                          “La fusione tra corpo-mente-tecnologia − scrive Ardizzi − non è solo un evento tecnologico ma un processo ontologico che rimodella costantemente il nostro essere nel mondo.” Ecco, forse è proprio qui la forza del saggio: non descrive un futuro da temere o da idolatrare, ma un presente da comprendere. Perché, come suggerisce l’autrice, “mai come adesso abbiamo bisogno di una teoria ontologica del cambiamento tecnologico”.                                                                                                                 Un invito lucido, e insieme un monito: se vogliamo restare umani, dobbiamo imparare a conoscere ed abitare i nostri algoritmi. Anche quelli bipedi.

Aggiornato il 08 ottobre 2025 alle ore 13:52