
In tutto questo delirio sull’Intelligenza artificiale, i lavori manuali che fine faranno? Segnatevi questa crasi: cobotica, cioè una “robotica collaborativa dotata di livelli di intelligenza artificiale”. La tesi è esposta in un saggio apparso sul portale The Continent, della tivù pubblica belga, scritto da Sotiris Manitsaris, direttore aggiunto del Centro di robotica Mines Paris-Psl, che è poi la grande scuola superiore d’ingegneria di Francia. Ed è una tesi che ancora volta prova a convincerci che manualità umana e ripetitività meccanica possono convivere per un bene superiore in cui la macchina resterà sempre un mezzo subordinato e funzionale alla tutela della dignità umana.
In ambito artigianale, e più in generale dei lavori manuali, le preoccupazioni sull’invasività dell’Ia sono legittimi. La manifattura incarna una memoria tecnica e culturale, che si basa su una raffinata padronanza del gesto, ma anche su un costante confronto con i vincoli fisici: il peso del materiale, l’esigenza di precisione, l’affaticamento muscolare o le posture prolungate. In queste condizioni, si chiede Manitsaris, come possiamo assecondare il gesto senza espropriarlo? A fondamento delle sue considerazioni, l’autore rimanda all’opera del 1932 di Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione, che “offre una riflessione profonda e duratura sulle forze stabilizzatrici (necessità, obbligo, abitudine) e sulle dinamiche creative (moralità aperta, misticismo)”. Questi concetti, afferma il ricercatore, “trovano oggi una risonanza stimolante nel dialogo tra gesti, robotica e mestieri manuali”. L’“interazione armoniosa” tra l’artigiano e la materia, acquisita con l’esperienza e la padronanza tecnico-manuale, può tuttavia subire delle “interruzioni nella fluidità”, spesso imposte dalle proprietà fisiche del materiale che mette a dura prova la continuità del movimento (“nell’assemblaggio di componenti automobilistici a bordo linea, la ripetizione di gesti all’altezza delle spalle diventa difficile e può compromettere la regolarità del movimento”). Ed è in questa potenziale “unità di crisi” che la cobotique (o cobotica), afferma Manitsaris, potrebbe svolgere un ruolo complementare, per “sostenere” la continuità e l’efficienza dei gesti. Un ruolo, si fa notare, che la cobotica svolge già in alcuni settori: “Dai cobot impastatori nell’industria alimentare, ai bracci collaborativi utilizzati per avvitare o lucidare nell’industria automobilistica, o ai cobot che assistono gli esseri umani in attività di assemblaggio ripetitive”. Ciò che è in gioco, spiega il ricercatore, non è solo la continuità del gesto, ma soprattutto la preservazione di ciò che gli conferisce valore: la sua precisione, la sua adattabilità e talvolta persino la sua bellezza.
In un motto di spirito che si vuole tipico dell’homo faber, i cobot potrebbero, dunque, essere visti come strumenti avanzati, progettati non per sostituire l’artigiano, ma per intervenire nei momenti critici in cui la continuità del gesto è minacciata: la simbiosi perfetta uomo-macchina, si dirà, dove quest’ultima viene in soccorso dei limiti del primo; una macchina non desiderante ma co-operante nello sforzo creativo dell’intelligenza manifatturiera. Che ora si affida a quella artificiale, in un’interazione che si fa più elaborata, poiché i cobot, osserva l’autore, “possono esternalizzare non solo i gesti fisici, ma anche determinati processi mentali”. In un laboratorio di restauro di mobili antichi, ipotizza Manitsaris, un cobot può mantenere la posizione di un pezzo complesso, come una fragile cornice intagliata, mentre l’artigiano regola un’opera d’intarsio. E può anche consegnare all’artigiano gli strumenti necessari secondo una sequenza prestabilita, riducendo le microinterruzioni e promuovendo la concentrazione sui movimenti di precisione. La sfida è di “preservare lo slancio creativo di fronte alla meccanizzazione che rischia di congelare le routine meccaniche”. Le professioni artigiane incarnano, allora, una ricerca di eccellenza e singolarità, in cui ogni gesto ha un valore estetico e simbolico eccezionale.
La cobotica, s’inserisce in questo contesto “per contribuire a preservare la fluidità e l’ergonomia dei gesti durante compiti impegnativi, mantenendo al contempo l’integrità artistica delle creazioni. Il futuro della collaborazione uomo-macchina e la necessità di integrare responsabilmente la cobotica nelle attività manuali, s’inverano nel trilogo homo faber, moralità aperta e innovazione. Un approccio chiuso, osserva il ricercatore, limiterebbe i cobot a una semplice estensione meccanica, rischiando di congelare le competenze all’interno di processi standardizzati; uno più aperto potrebbe considerare i cobot come estensioni in evoluzione delle capacità dell’homo faber, rispondendo agli imperativi imposti dalla materia. Senza necessariamente scegliere tra una moralità chiusa e una aperta, scandisce Manitsaris, il punto essenziale rimane rispondere agli imperativi imposti dalla materia, rispettando al contempo la ricchezza delle tradizioni e la bellezza del gesto. Si tratta, insomma, “di sostenere gli esseri umani laddove incontrano resistenza, preservando al contempo ciò che costituisce la dignità del fare”.
Che sia AI, digitalizzazione, robotica o cobotica, la domanda di senso non cambia: fino a che punto possiamo esternalizzare senza tradire l’autenticità del gesto artigianale? Come possiamo garantire che la tecnica rimanga uno strumento di supporto piuttosto che un sostituto della competenza umana?
Aggiornato il 12 giugno 2025 alle ore 15:40