Ci viene detto continuamente che viviamo in una società capitalista e liberale, che il mercato è “assolutamente libero” e che proprio questo sarebbe all’origine delle ingiustizie, delle disparità sociali, economiche, e chi più ne ha più ne metta. Ci viene detto che l’economia mondiale è in mano a pochissime aziende straricche da fatturati fantastilionari, e a tutto ciò ci sono arrivate seguendo la spietata legge della concorrenza, la legge del più forte. Ma è davvero così? Sebbene tanti, troppi siano gli studi che dimostrano esattamente il contrario, questo mito è ben duro a morire, tanto che chi prova a suggerire anche lontanamente il contrario viene spesso zittito o ridicolizzato. Nihil novum sub sole. Tuttavia, che certe aziende (non tutte ovviamente, anzi una loro ristretta minoranza) siano giunte ad avere un potere notevole non solo per proprio merito e valore intrinseco, ma anche grazie – udite, udite – a certi sovvenzionamenti da parte di Stati che ne hanno favorito la crescita, in barba a qualunque “libera concorrenza”, è qualcosa che diviene degno perlomeno di sospetto. Anche andando a esaminare semplici dettagli secondari, eppure non così irrilevanti. Giusto per fare alcuni nomi: Amazon, Apple, Samsung, Disney, Oracle e Meta.
Guarda caso, queste stesse aziende – penso soprattutto alla citata Disney, ma anche ad Amazon e Meta, il gruppo tecnologico di Mark Zuckerberg che include Facebook e Instagram – sono attentissime a promuovere in vario modo le agende progressiste, socialiste e woke degli Stati occidentali (tutto si tiene). A chi sostiene che oggi la politica sia governata dalle multinazionali, bisognerebbe piuttosto far notare il contrario: sono le multinazionali, almeno in Occidente, a essere “manipolate” (non già governate, come nei socialismi orientali) dalle Nazioni, perché queste ultime hanno la forza di prelevare coercitivamente denaro e distribuirlo ai portavoce ritenuti più efficaci. Ma far notare questo rapporto causale non è affatto facile, anzi, in questo come in altri ambiti, spiegare le cause del disordine sociale invertendo tale rapporto risulta più facile, sia per questioni psicologiche (incolpare di tutti i mali chi è più ricco mi deresponsabilizza) sia per questioni intellettuali (andare a scavare nelle ragioni filosofiche e storiche alla base di tutto ciò non è qualcosa di immediato accesso).
Ma come si diceva, sono i dettagli secondari spesso a essere particolarmente rivelatori. Recentemente, il giornalista Stefano Magni ha riportato su La Nuova Bussola Quotidiana una serie di strani comportamenti da parte di Google e Meta all’indomani dell’attentato a Donald Trump, candidato repubblicano in corsa per le imminenti Presidenziali Usa 2024. Come scrive il giornalista, ci sono vari modi di censurare un contenuto. Il primo è il ritiro o la cancellazione di informazioni per ordine delle autorità (à l’orientale, potremmo dire). Il secondo è il boicottaggio di chi dovrebbe diffondere quelle informazioni (à l’occidentale). Recentemente, le Big tech hanno nascosto o manipolato informazioni sulla campagna elettorale di Donald Trump. Ad esempio, su Facebook è stata etichettata come falsa una foto iconica di Trump, mentre il chatbot di Meta ha negato l'esistenza di un attentato a Trump. Inoltre, Google non suggerisce il nome di Trump nelle ricerche relative a falliti attentati. Sebbene Meta e Google abbiano ammesso gli errori, dichiarano che non si tratta di censura. Già, semplicemente errori. Peccato che questi errori avvengano sempre e solo a danno di una parte sola.
Questa contraddizione è tanto più evidente quando si considera il continuo proclamarsi di queste aziende come paladine della libertà di parola e del libero scambio di idee. Sia Meta che Google, insieme ad altre grandi aziende tecnologiche, promuovono pubblicamente la necessità di un’informazione aperta e accessibile. Eppure, all’atto pratico, sembrano impegnarsi attivamente nel limitare o manipolare le informazioni che non si allineano con l’agenda progressista dominante. Questo comportamento non solo mina la loro credibilità, ma solleva anche interrogativi preoccupanti sul vero grado di libertà e pluralismo nei nostri moderni spazi digitali.
Le stesse aziende che si vantano di essere i baluardi della democrazia e della libertà di espressione sono le prime a esercitare un controllo stringente sui contenuti che circolano sulle loro piattaforme, e si avvalgono di strumenti di censura velata per modellare il discorso pubblico secondo i loro interessi. Questo controllo si manifesta attraverso algoritmi di selezione delle informazioni, etichettature di fact-checking e funzioni di auto-compilazione che sembrano deliberatamente orientate a oscurare o delegittimare voci dissenzienti. Di conseguenza, la libertà di parola è garantita solo fintanto che si rimane entro i confini accettati dell’ideologia dominante, mentre chi tenta di discostarsene viene sistematicamente silenziato o ridicolizzato. Si badi bene: queste multinazionali sono anche quelle che dichiarano di volere “un mercato e un mondo più equo e giusto”. Attenzione: non un mercato libero.
Aggiornato il 06 agosto 2024 alle ore 11:24