Digital Service Act? Un rischio per privacy, concorrenza e conoscenza

Con l’entrata in vigore del Dsa (Digital Service Act), il nuovo regolamento Ue sull’utilizzo delle piattaforme informatiche e social, che è diventato operativo dal 25 agosto 2023, si sono aperte una serie di questioni sulla libertà di espressione, la privacy delle persone e la concorrenza tra piattaforme informatiche.

Queste ultime sono diventate responsabili dei contenuti pubblicati dai loro utenti e sono obbligate a dotarsi di un centro interno per il controllo dei post. Infatti, al punto 84 del Dsa si legge che “nel valutare i rischi sistemici individuati nel presente regolamento, tali fornitori (le società) dovrebbero concentrarsi anche sulle informazioni che non sono illegali ma contribuiscono ai rischi sistemici individuati nel presente regolamento. Tali fornitori dovrebbero pertanto prestare particolare attenzione al modo in cui i loro servizi sono utilizzati per diffondere o amplificare contenuti fuorvianti o ingannevoli, compresa la disinformazione. Qualora l’amplificazione algoritmica delle informazioni contribuisca ai rischi sistemici, tali fornitori dovrebbero tenerne debitamente conto nelle loro valutazioni del rischio”.

Questo passaggio riconosce il fatto che non tutti i contenuti dannosi sono necessariamente illegali. Le piattaforme digitali dovranno utilizzare i loro algoritmi per determinare anche quali post sia “giusto” mostrare agli utenti, influenzando potenzialmente gusti ed opinioni. Potrebbe accadere così che misure di moderazione troppo rigorose portino alla rimozione ingiustificata di notizie culturali, artistiche o politiche legittime.

Le aziende inadempienti o reticenti alla nuova stretta saranno inoltre sanzionate pesantemente, dalla Commissione europea (un organo politico sovranazionale) che, attraverso il Comitato europeo per i servizi digitali, terrà l’occhio puntato sulle società e il loro modo di gestire i contenuti  dall’alto della sua presunta “sapienza”, decidendo cosa è ingannevole e cosa non lo è, stra-fregandosene del diritto alla libera espressione del pensiero sancito dalle varie Costituzioni degli Stati del Vecchio Continente. Parrebbe l’incarnazione del “Ministero della Verità” tratteggiato da George Orwell.  Il testo è passato con i voti favorevoli di Fratelli d’Italia, Forza Italia, Partito Democratico e altro sinistrume. Ha votato contro la Lega. Si registra infine la contrarietà del Partito Liberale italiano che però non è rappresentato in Parlamento europeo.

Le democrazie europee avrebbero dovuto resistere alla tentazione di chiudere le porte al confronto e alla divergenza di pensiero, poiché queste sono le forze trainanti della nostra crescita come individui e come società. Queste prescrizioni, poi, non solo limitano la libertà di espressione, ma ostacolano anche la ricerca dell’informazione accurata e la comprensione completa delle questioni che ci circondano. Inoltre, la definizione di “contenuti illegali” o “nocivi” potrebbe essere soggettiva e portare a decisioni arbitrarie da parte degli algoritmi, con tutti i rischi annessi e connessi.

Con questo regolamento, inoltre, si apre anche una e più gravosa questione di privacy. Infatti, la nuova disciplina prevede l’obbligo per le società di condividere dati con le autorità pubbliche, di fatto attuando una sorveglianza costante sulle persone e i loro interessi, siano essi culturali, politici o economici con conseguente raccolta e analisi massiccia di materiale. Per di più, si amplifica il rischio che tale materiale possa essere utilizzato in modo improprio o finire persino nelle mani sbagliate comportando il pericolo di discriminazione e stereotipizzazione degli utenti a causa della profilazione di cui sono oggetto. Cosa che peraltro è già avvenuta con l’affare “Cambridge Analytica”, con l’acquisizione da parte di questa società delle informazioni di 87 milioni di utenti Facebook senza autorizzazione degli stessi, che poi sono stati utilizzati per la campagna elettorale per le Presidenziali negli Usa. Inoltre, algoritmi di moderazione troppo spinti potrebbero penalizzare determinati gruppi sociali o categorie, permettendo alterazioni o violazioni, seppur involontarie, ma illegittime e pericolose.

Il dispositivo approvato potrebbe richiedere anche di mantenere negli archivi dati rilevanti sugli utenti, come quelli biometrici provenienti da tecnologie di riconoscimento facciale, prolungando nel tempo l’osservazione dell’attività dell’individuo. Addio così alla privacy, al diritto all’oblio (la cancellazione della propria attività sul web) e all’anonimato in alcune operazioni come, per esempio, l’invio di reperti medici strettamente personali.

Questo nuovo regolamento, intanto, può anche diventare un ostacolo all’innovazione digitale. Infatti, le nuove regole e le responsabilità aggiuntive potrebbero scoraggiare le imprese dal lanciare nuovi servizi digitali o dalla sperimentazione di nuove idee, per paura di violare le norme in vigore, con il rischio di affrontare poi le relative sanzioni.

Per non dire che si caricano ulteriori costi sulle piccole e medie imprese, alle quali si richiede la nomina di responsabili della “conformità”, il che potrebbe rappresentare una sfida finanziaria significativa per i loro bilanci. Questo processo potrebbe favorire, però, l’oligopolio delle cosiddette “Big tech” (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) che infatti non pare abbiano protestato più di tanto. Tutto, però, a scapito della concorrenza, dell’innovazione e della competitività. Cosa che avviene già in altre aree geografiche fuori dall’orbita dell’occidente con gli oligopoli di Batx, ovvero Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi nella Cina comunista; di Yandex e Vkontakte in Russia e di Hi5 in America Latina.

Risulta evidente che le grandi aziende tecnologiche, disponendo già delle risorse finanziarie e umane per rispettare le norme con facilità, si ritrovano in una condizione di vantaggio oggettivo rispetto alle startup e alle imprese più piccole. E questo porta inevitabilmente a una maggiore concentrazione di potere nelle mani delle società dominanti, riducendo la diversità e l’innovazione nel settore digitale.

Infine, è importante sottolineare che il legislatore avrebbe dovuto tenere conto delle rapide evoluzioni tecnologiche e sociali, imponendo normative flessibili e semplificate per affrontare nuove sfide e opportunità che emergono nel mondo digitale. Inoltre, è importante considerare come il Dsa potrebbe impattare sulle relazioni internazionali, in quanto le piattaforme spesso operano su scala globale. Le norme europee potrebbero entrare in conflitto con le leggi di altri Paesi non comunitari, sollevando questioni di sovranità e di cooperazione internazionale.

Purtroppo, assistiamo a una progressiva “militarizzazione” della società e quindi della comunicazione volta a controllare oggi, e forse a reprimere domani, la possibilità di esprimere dubbi, critiche e se volete anche libere idee. Per questo, ancor di più va difeso il libero pensiero e la sua manifestazione sempre, dovunque e di chiunque, perché la verità non è appannaggio di nessuno, men che meno di un organismo sovrastatale. Al contrario di quello che pensa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, con simili regolamenti non si “portano in rete i valori europei” ma i loro opposti. Perché controllare, limitare o vietare la divulgazione di informazioni, idee o opinioni, anche se controverse o scomode, mette a repentaglio il diritto fondamentale alla conoscenza, che non è per pochi “eletti” e pertanto centralizzata, bensì è diffusa e plurale.

Aggiornato il 05 settembre 2023 alle ore 11:00