Brindisi: e se li avessero linciati?

*Presidente dell'Unione delle Camere Penali italiane

Come tutti, come ogni madre, come ogni padre, come ogni fratello di questo Paese siamo rimasti colpiti dalla strage di Brindisi. Come qualsiasi italiano vorremmo che fosse fatta presto giustizia, scoprendo i colpevoli, giudicandoli secondo le regole, condannandoli alla pena di giustizia. Comprendiamo anche che fatti di questo genere sconvolgono una comunità, la colpiscono nei sentimenti più intimi e suscitano reazioni  istintive. Lo comprendiamo perché conosciamo il dolore delle vittime, cui siamo spesso accanto nella ricerca di verità e giustizia. E proprio perché, da avvocati, conosciamo questi sentimenti, siamo altrettanto convinti della necessità del rispetto delle regole, quelle del codice e quelle deontologiche, da parte di tutti coloro che abbiano a che fare con una indagine penale. 

A poche ore dalla strage avevamo registrato le impossibili certezze di alcuni commentatori, di alcuni politici, di qualche magistrato, sulla matrice del gesto, quando ancora il sangue era caldo, quando le indagini si erano appena aperte, quando nulla di certo era possibile affermare, come sempre è in una indagine preliminare al suo inizio. Con lo scorrere delle ore avevamo osservato l'ormai consueto collasso informativo causato dalla mancata tenuta del segreto di indagine, con elementi probatori sbattuti in prima pagina ad horas, con possibile gravissimo pregiudizio per le stesse indagini, e l'abituale balletto delle dichiarazioni relative alle piste investigative, ai reati ipotizzabili, alle concorrenti competenze di uffici di Procura. Di fronte a questi fatti, da subito, avremmo voluto intervenire, per denunciare, per l'ennesima volta, quello che ormai due anni fa abbiamo definito «il pessimo spettacolo della giustizia spettacolo».

Poi, abbiamo assistito all'ennesimo impazzimento di quel circuito che caratterizza l'informazione sui temi giudiziari, con le notizie delle attività degli inquirenti riportate quasi in diretta, con le iniziative di acquisizione di elementi probatori scambiati per impossibili certezze e apprese dalla pubblica opinione ancor prima del loro completamento. Il tutto sullo sfondo di un contrasto tra uffici di Procura neppure  dissimulato. Siamo venuti a conoscenza, come tutti, delle perquisizioni, delle convocazioni, delle verifiche, ed ancor prima di un identikit ideale del presunto colpevole sbattuto in prima pagina assieme alle immagini sfocate di quello reale. In un susseguirsi di notizie di agenzia che davano atto del fermo - in seguito rivelatosi non vero - di alcune persone, abbiamo visto il sospetto diffondersi prima nella città colpita e poi, come un'eco propagato  dai media nazionali, in tutto il Paese. In poco tempo è arrivata la notizia, diffusa su Twitter da un giornalista più solerte, o forse più strettamente legato ad ambienti di polizia giudiziaria, del nome di queste persone. Dopo il nome l'indirizzo, la foto della sua casa, alcuni dettagli della vita personale. Il tutto, secondo un autorevole commentatore «ha assunto i contorni grotteschi dello stereotipo più logoro: i testimoni si volevano oculari, sedicenti vicini di casa, aspiranti criminologi hanno tracciato la fisionomia di un identikit tanto prevedibile da sembrare inventato di sana pianta. Come appunto era». Questo parossistico inseguirsi di notizie ha finito per produrre l'esito che si poteva immaginare: una folla si è radunata avanti agli uffici di polizia ed ha tentato di farsi giustizia da sola. 

Non è la prima volta, e non interessa - anche se la notizia  acuisce l'irresponsabilità dei tanti che sulla violazione del segreto vivono - che le persone di cui si parla non sono mai state neppure iscritte nel registro delle notizie di reato. E continuerebbe a non importare anche se in seguito le stesse persone fossero indagate. Ciò che importa è che quella violazione delle regole di cui spesso ci siamo lamentati, quel circuito informativo che porta alla pubblicazione di atti e notizie riservate senza alcun ritegno, e prima ancora  del loro effettivo riscontro, abbia fatto correre il rischio che altro sangue fosse versato. Se li avessero linciati, fisicamente, stavolta, non solo moralmente come capita a quei molti che incappano anche solo per un momento in una indagine, quegli stessi che avevano contribuito a determinare le condizioni affinché ciò avvenisse avrebbero probabilmente speso parole di sdegno. Ma sarebbero state indegne a loro volta.

Chi si occupa delle indagini, polizia giudiziaria, magistrati, avvocati, dovrebbe conoscerle e rispettarle, anche per questo motivo, non solo perché vi sono obblighi in tal senso. La stampa italiana, spesso, sembra negare questa ovvia verità con i processi virtuali sulle indagini non concluse e con la pubblicazione di atti di indagine non consentita, ma soprattutto con il continuo arretramento della soglia, che è un vero confine di civiltà, tra il sospetto e il fatto. 

Questo non è un giudizio complessivo sulla stampa e la libertà di informare, ovviamente, ma un grido di allarme verso un fenomeno che, inutilmente, denunciamo da anni e vediamo espandersi sempre più. E non è un grido isolato. Ha scritto un giornale attento a questi temi: «Noi pensiamo che questo modo di fare informazione sia scandaloso. Sia sciacallaggio puro. Dare le generalità di una persona sospettata, mentre la folla assedia la questura, è una istigazione alla violenza. È mettere la vita di qualcuno, forse un probabile innocente, nella mani della gogna pubblica». Fortunatamente il linciaggio fisico non è avvenuto mentre quello morale è terminato e con la stessa rapidità molte testate hanno cannibalizzato anche il destino dei  malcapitati mostri per un giorno con il corredo consueto di interviste sulla loro disavventura, come già avvenuto in passato, come se tutto non fosse dipeso anche dalla informazione, meglio dalla qualità della informazione e dal rigore deontologico che la dovrebbe connotare. Ieri il garante della privacy, pur difendendo il diritto di informazione, ha sottolineato al riguardo: «Ovviamente si deve valutare l'accuratezza del lavoro e la correttezza, il modo in cui lo si fa. Anche quando si dice che il mostro è stato sbattuto in prima pagina e non era il mostro, ci si potrebbe chiedere: perché, se era il mostro andava bene?».

Ovviamente, non conosciamo gli elementi investigativi a disposizione degli inquirenti, per cui non siamo in grado di interloquire sull'esistenza o meno della finalità di terrorismo che fa spostare la competenza dalla Procura ordinaria di Brindisi alla Dda di Lecce. Certo è che l'impressione devastante data dalla polemica tra i due uffici è quella di una valutazione dei fatti non oggettiva, come dovrebbe essere, ma strumentale, operata cioè da ciascuno in modo da dirigere il processo verso la propria competenza per materia. Ne è venuta fuori l'immagine di uffici giudiziari che "piegano i fatti" per contendersi il caso mediatico, lasciando nella pubblica opinione più accorta il sospetto di una gestione non distaccata e serena della giustizia, come invece dovrebbe essere in ogni vicenda, anche (e forse a maggior ragione) in quelle dove la pressione della pubblica opinione è più opprimente. Sempre il garante della in Privacy ha giustamente sottolineato che i magistrati «dovrebbero proteggere gli elementi in loro possesso, e stavolta non l'hanno fatto».

Questi fattori patologici si tengono vicendevolmente, ed il loro superamento richiede che tutti rispettino le regole: magistrati, polizia giudiziaria e giornalisti.

Occorre che gli inquirenti recuperino la sobrietà e la riservatezza del proprio ruolo, che non sono doti eccezionali loro richieste ma costituiscono l'abc di un lavoro delicato e potenzialmente dannoso quale quello che svolgono. Occorre altresì che si smetta di contrabbandare per diritto di libertà l'uso violento ed irresponsabile dell'informazione. E questo non avverrà fino a quando gli organi preposti al controllo deontologico, anche di fronte a casi eclatanti, continueranno a voltare lo sguardo dall'altra parte.

Occorre, se tutto ciò non bastasse, prendere atto che ogniqualvolta si è scatenato il caos del processo mediatico la soluzione dei fatti criminali, gravissimi o gravi che fossero, è sempre stata negativa o comunque insoddisfacente.

Aggiornato il 28 novembre 2022 alle ore 02:46