Il meglio di Facebook della settimana

L'anniversario della morte del commissario Calabresi riapre ferite mai rimarginate. Sulle responsabilità penali di Adriano Sofri. Ma, soprattutto, sulla responsabilità politoica e morale della sinistra e della sua cultura tagicamente egemone allora come oggi. Per questo motivo la rubrica su Facebbok di questa settimana è dedicata interamente alla riflessione apparsa su Facebook dall'avvocato Claudio Sara. Per motivi di spazio non si tratta del testo integrale ma solo dei brani più significativi e rappresentativi di opinioni largamente diffuse tra la maggioranza silenziosa del paese.

«Quello di Sofri è un caso tipico, una sorta di cartina al tornasole immersa nella politica italiana, in generale, e nel modo di intendere la giustizia in materia di terrorismo o comunque di reati a sfondo politico, in particolare. Adriano Sofri credo passerà alla storia come l'uomo più processato al mondo (ben sette giudizi) per lo stesso fatto: la responsabilità nell'omicidio del Commissario di pubblica sicurezza, Luigi Calabresi. Il suo iter giudiziario, infatti, ha avuto dell'incredibile: dopo ogni condanna, si è puntualmente tentato, da più parti e in mille modi diversi, di farlo processare ancora, sperando e anzi pretendendo un'assoluzione. Anzi, la condanna è stata, ed è tuttora, considerata un obbrobrio giuridico, un'ingiustizia di stato, un vero e proprio abuso. Malgrado questo, gli organi rappresentativi della magistratura non hanno sollevato obiezioni, non hanno gridato allo scandalo, allo "sconfinamento" come sarebbe stato legittimo oltre che giusto ed auspicabile. Molti hanno tenuto un silenzio pavido, ossequioso, sospetto.

Altri, addirittura, hanno applaudito. Dicevo di come i paladini della giustizia, inItalia, abbiano spesso taciuto e incoraggiato, sopportato e supportato, certe scorribande effettuate nel loro campo di azione e di manovra. Quante persone hanno protestato e contestato ? Quante hanno denunciatol'ambiente creato attorno al caso? Poche, troppo poche! Neanche il figlio del commissario, Mario Calabresi, autore di uno dei pochi libri capaci di riempirmi gli occhi di lacrime per la commozione (Spingendo la notte più in là), ha fatto, come suol dirsi, il diavolo a quattro. Anzi, per anni, è stato redattore del quotidiano La Repubblica che, ospitando manco a dirlo gli articoli e le "riflessioni" di Adriano Sofri, gli ha concesso il poco invidiabile onore di apporre la propria firma sugli stessi fogli vergati da colui che, per la magistratura italiana, era stato uno dei responsabili, anzi il mandante dell'omicidio del padre. Sembra impossibile, ma è così. A questo punto dovrei criticare aspramente Mario Calabresi e le sue scelte professionali e politiche. Ma non è facile! Nei confronti di uomini come lui e della sua famiglia non si può che portare un rispetto affettuoso, discreto ed infinito.

Per questo motivo, mi prendo solo una licenza, quella di porre all'attuale direttore de La Stampa di Torino alcune semplici domande e di sottoporgli quelle che sono (per me) le scontate risposte: "Caro Direttore, mi scusi se mi permetto, ma come crede che si sarebbero schierati all'epoca degli anni di piombo coloro che sono stati, e sono, i suoi amici politici? Ricorda l'unica fotografia pubblicata nel suo splendido libro? Quell'immagine terribile simbolo di quei tristi anni, che ritrae Giuseppe Memeo, il «ragazzo con passamontagna, jeans a zampa di elefante e stivaletti» che «tende le braccia in posizione di tiro» impugnando una Beretta calibro 22? Ovviamente sì. Ebbene, ci pensi e sono convinto che giungerà alla conclusione di ritenere che la maggioranza dei suoi "amici" (se non tutti), all'epoca si sarebbe posizionata (ideologicamente parlando e non certo con le armi in pugno, si intende) alle spalle del Memeo, dallo stesso lato della barricata. Una fredda, lucida ed onesta riflessione le farebbe capire che non mi sbaglio. Così come sono sicuro che lei non avrebbe alcun dubbio nel convenire con me sul fatto che chiunque si fosse invece schierato dalla parte opposta, al centro del mirino, si sarebbe trovato certamente tra tanti onesti, integerrimi galantuomini con, in prima fila, il commissario Luigi Calabresi".

Io ancora non mi capacito di come Mario Calabresi, fu Luigi, abbia accettato di scrivere sul quotidiano del gruppo editoriale che, per giunta, pubblica anche il settimanale L'Espresso, proprio il periodico su cui apparve il famoso (io direi famigerato) "appello agli uomini di cultura" con il quale Camilla Cederna, giornalista e scrittrice sinistrorsa, guida indiscussa della campagna diffamatoria nei confronti del commissario Calabresi ritenuto il responsabile della morte dell'anarchico Pinelli, incitava a ricusare i «commissari torturatori, i magistrati persecutori, i giudici indegni» e chiedeva «l'allontanamento dai loro uffici» non riconoscendo in loro «qualsiasi rappresentanza della legge, dello stato, dei cittadini» (articolo su L'Espresso del 13 giugno 1971 Colpi di scena e colpi di karatè, gli ultimi incredibili sviluppi del caso Pinelli). La Cederna, nelle settimane successive, ha avuto la bellezza di 756 "compagni" che si sono premurati di sottoscrivere in massa quel documento. Chi si prendesse la briga di andare a scorrere l'elenco dei firmatari, troverebbe una serie infinita di mostri sacri della sinistra italica. Alcuni di loro non sono più di questo mondo, ma tutti indistintamente ancora oggi hanno un peso ed un credito infinito, facendo parte di quella lobby politico-culturale di sinistra che imperversa in Italia ormai da più di quaranta anni».

Aggiornato il 28 novembre 2022 alle ore 02:46