In un’epoca in cui la propaganda sfrutta tutti gli strumenti più avanzati tecnologicamente, non sorprende che la verità possa corrispondere a una realtà virtuale in cui la narrazione di ogni evento corrisponde agli interessi di parte o per meglio dire di fazione, trasformando ogni conflitto in una guerra stile guelfi e ghibellini. Questo modus agendi non risparmia alcuno dei contendenti, a prescindere dal regime politico che governa ciascuno, tanto che sia democratico (o sedicente tale) quanto che sia marcatamente egoarchico. I mass media diventano le armi più efficaci per plasmare le opinioni e veicolare l’informazione (molto spesso come “deformazione”). I “cavalieri” di turno, che invece di indossare armature o spade utilizzano la penna o la propria voce per declinare la verità dei fatti, così come confezionata dal mainstream, obbediscono alla propaganda di regime a prescindere dall’eventuale personale dissenso.
Tutto ciò è quello che stiamo vedendo accadere nel conflitto belligerante tra l’Ucraina e la Russia, in cui ognuna dipinge l’altra come il male assoluto e tutto sempre a danno dell’economia e dell’incolumità dei rispettivi incolpevoli comuni cittadini, i quali stanno perdendo tutto ciò che conta a cominciare dalla propria vita. Pertanto, esistono due modi per guardare alla Russia, il primo è rimanere intrappolati nella propaganda, fuorviante e martellante, che ogni giorno i media europei riversano sui cittadini, il secondo è tentare di leggere oltre le apparenze, ossia cercare di capire la logica di uno Stato che ha fatto della dissimulazione una vera arte. In Europa, la narrazione dominante dipinge Vladimir Putin come un nuovo zar pronto a invadere il Vecchio Continente e governi come quello tedesco alimentano l’allarme con “piani segreti” da 1.200 pagine, ipotizzando l’impiego di 800mila soldati e un imminente attacco entro il 2029.
Allo stesso modo, l’alta rappresentante dell’Ue per gli affari esteri Kaja Kallas, con fare tanto irresponsabile quanto risoluto, ammonisce quotidianamente con toni da generale al fronte: “Prepariamoci alla guerra”, mentre i piani di riarmo miliardari diventano notizia di prima pagina. Il “battito dei tamburi” aumenta in modo esponenziale, allertando i cittadini europei a prepararsi il kit di sopravvivenza o a prepararsi al peggio, mentre Putin ripete da anni che il suo unico obiettivo è controllare le zone russofone dell’Ucraina e prevenire che Kiev diventi una minaccia per Mosca, assicurando di non voler confliggere con l’Unione europea. Perfino l’emerito presidente della Repubblica nostrana, per “calmare gli animi” e “abbassare i toni”, ha avuto la “lungimirante” idea di paragonare Vladimir Putin ad Adolf Hitler e recentemente nel corso delle delicatissime e fragilissime trattative di pace fra le due parti in conflitto ha pensato bene di condannare qualsiasi accordo, anche quello attualmente in oggetto che prevede la cessione del Donbas (contrazione di Donets Basin) a favore della Russia. Dunque, allora, chi sta mentendo? Chi, tra Occidente e Cremlino, dice la verità?
Per orientarsi, occorre un’analisi storica e culturale profonda, lontana dalle semplificazioni giornalistiche ed è qui che interviene il saggio di Aldo Ferrari, docente alla Ca’ Foscari di Venezia e direttore del programma Russia, Caucaso e Asia Centrale per l’Ispi, la cui analisi sul tema in questione diventa imprescindibile. In “Russia. Storia di un impero eurasiatico”, Ferrari offre una contestualizzazione illuminante, che spiega le contraddizioni identitarie di un Paese tormentato, incapace di decidere se guardare a Occidente o all’Oriente. Dalla narrativa del testo in oggetto emerge che la Russia storicamente è inefficace quando attacca e imbattibile quando si difende, perché rappresenta una patria di talenti letterari e di scienza straordinari ma allo stesso tempo è immersa in un contesto sociale di rassegnata passività, oscillante tra un autoritarismo moderato e uno brutale, incapace di valorizzare pienamente le proprie immense risorse naturali. Questa analisi risulta funzionale e determinante per la comprensione che la chiave essenziale di lettura delle politiche di Mosca non è e non può essere quella che fu utilizzata per l’Unione Sovietica. Il progetto geopolitico della Russia non è definibile come espansionismo fine a se stesso, ma si declina nella costruzione di un ponte eurasiatico autentico tra Europa e Oriente.
Inoltre, l’analisi di Ferrari evidenzia un altro elemento cruciale, ovvero che la Russia oggi si allea con la Cina non per amore, ma per necessità, spinta dall’ostilità di Nato e Stati Uniti, serbando tuttavia un segreto auspicio di distensione con l’Occidente. A tale proposito, non si può non ricordare le diverse dichiarazioni rilasciate dall’ambasciatore Sergio Romano sulle finalità belligeranti che oramai contraddistinguono il paradigma valoriale della Nato e che probabilmente hanno spinto la Russia ad agire nel modo più violento attaccando l’Ucraina (come cercò di avvisare, prima che avvenisse, il lungimirante Giulietto Chiesa nel 2020) da un lato e contribuendo al suo avvicinamento alla Cina dall’altro. Lo ha capito anche Donald Trump, che ha ribaltato la politica antirussa del suo, a dir poco miope, predecessore Joe Biden (che prima dello scoppio del conflitto in Ucraina attaccò deliberatamente e senza alcun motivo Putin durante un’intervista televisiva), inserendo nella nuova National Security Strategy la convinzione che sia più saggio avere Mosca come partner piuttosto che costringerla a legarsi sempre di più a Pechino. Trump non ignora le difficoltà oggettive della Russia, con un Pil inferiore a quello dell’Italia, con le frontiere immense difficili da controllare, con lo spopolamento strutturale, con i problemi di reclutamento militare e con una popolazione tre volte inferiore a quella europea, tant’è che sacrificare milioni di giovani in una guerra contro un continente molto più popoloso sarebbe un atto suicida. La verità, quindi, sembra emergere da una lettura lucida e disincantata dei fatti, scevra da qualsiasi faziosità, ossia che la Russia non ha né la capacità economica né quella militare per un attacco su larga scala all’Europa e le ostilità nel Donbas appaiono ormai un vicolo cieco.
L’unica scelta razionale per l’Occidente non è alimentare il panico o le fantasie di invasione, ma accettare la realtà geopolitica, bisogna assolutamente voltare pagina, chiudere il capitolo della guerra in Ucraina e concentrarsi sulla sicurezza, la stabilità economica e la pace dei nostri popoli. Il rischio più grande oggi non è Mosca, ma la nostra cecità strategica, incapace di distinguere tra propaganda e realtà, tra ipotesi sensazionali e fatti concreti. Al postutto, in un mondo segnato da tensioni globali, ecco che riaffiora in modo incontrastato ciò che il sottoscritto non fa altro che reiterare da sempre, senza alcuna soluzione di continuità, ossia che solo con la conoscenza dei fatti in generale e degli ante fatti in particolare (in sostanza della storia in ogni suo aspetto e senza filtri di qualsiasi propaganda) e quindi solamente con la prudenza del buon senso, saremo in grado di decidere con realistica cognizione di causa, solo in questo modo potremo uscire fuori dall’incubo di conflitti improbabili ma pericolosamente evocati ogni giorno dai media.
Aggiornato il 22 dicembre 2025 alle ore 10:39
