Il conflitto israelo-palestinese rimane, più di qualsiasi altro, una perfetta cartina al tornasole delle fratture che attraversano il pianeta. Non è solo una guerra concentrata in un territorio limitato, ma il punto in cui si manifesta con maggiore nitidezza la distanza tra popoli privilegiati e popoli non privilegiati: una distanza materiale, politica ed esistenziale, che altrove resta implicita ma qui si rivela in tutta la sua crudezza. Nel mio articolo del 22 luglio 2025, ricordavo come il Medio Oriente non possa essere compreso senza coglierne la struttura profonda, segnata da assetti pre-westfaliani e da una distribuzione del potere che si muove lungo linee tribali, confessionali, etniche o autoritarie. Ma soprattutto sottolineavo come la regione funzioni da falda geopolitica, “una zona di frizione e intersezione tra civiltà, religioni, interessi strategici ed economie diseguali”, un luogo in cui vengono a contatto – in modo sempre più violento e squilibrato – “i popoli ricchi e i popoli poveri del pianeta”.
È su questa interfaccia, su questa frattura permanente tra chi possiede la ricchezza e chi lotta per sopravvivere, che si proietta il conflitto tra israeliani e palestinesi. Ed è per questo che esso continua a parlare al mondo intero. Con la fine della Guerra fredda, al di là della parentesi illusoria di un ordine globale unilaterale e del mito – non saprei come altro denominarlo – della “fine della storia”, oggi appare evidente che è avvenuto l’opposto. Le tre potenze che avrebbero potuto, con modalità diverse, costituire gli assi portanti della stabilità internazionale – gli Stati Uniti, la Repubblica popolare cinese, la Russia – attraversano una fase in cui nessuna di esse esercita un’egemonia sufficiente a trattenere le linee di frattura del mondo. Le ragioni sono molteplici, complesse, e meritano un’analisi che affronterò in un altro articolo: qui basta rilevare il risultato.
Il risultato è un pianeta che si è fatto più disordinato, più opaco, più esposto a una conflittualità diffusa. Là dove un tempo il bipolarismo garantiva – con tutte le sue rigidità – una sorta di distanza protetta tra i popoli privilegiati del nord e quelli non privilegiati del sud, oggi assistiamo alla dissoluzione di quella distanza. La fine della contrapposizione Usa-Urss non ha liberato il mondo da una struttura rigida: lo ha liberato dalla struttura stessa. E quando non c’è più una struttura, non c’è più neppure un limite che separi, contenga, isoli. Le tensioni che un tempo sarebbero rimaste locali diventano immediatamente globali; e le fratture globali penetrano nelle più piccole faglie locali. Ed è in questo stesso vuoto di potere che si tenta di introdurre nuove categorie interpretative, spesso solo verbali, come quella di sud globale – qualunque cosa significhi – nel tentativo di riordinare simbolicamente ciò che nella realtà sfugge a ogni forma di riordino.
È in questo contesto che va collocato anche il conflitto tra Israele e Palestina. Per quanto sia crollata la geometria bipolare della Guerra fredda, l’intera sfera di influenza statunitense – di cui fanno parte l’Europa e, con particolare evidenza, lo Stato di Israele – è rimasta salda. È necessario ricordare che sul suolo italiano e in mezza Europa sono collocate decine di armi con testate nucleari pronte all’uso? Basta questa consapevolezza a comprendere come tale sfera d’influenza costituisca uno dei vertici più elevati tra i popoli privilegiati: un’area del mondo in cui la sicurezza, le risorse, la tecnologia, la capacità di deterrenza e la protezione militare formano una barriera che nessun fattore esterno ha intaccato davvero. Tutt’altro discorso i fattori interni che continuamente tentano di autosabotare la propria posizione di privilegio.
Se questo è vero, non stupisce che il popolo palestinese abbia più di una recriminazione nei confronti dello Stato di Israele. Come ricordava una volta Giulio Andreotti, con la sua consueta lucidità disarmante: “Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista”. Non è difficile comprendere, in questa frase, la pressione storica che grava su un popolo a cui è stata negata non solo la terra, ma l’orizzonte stesso dell’avvenire e che non esiterebbe un solo istante se potesse scegliere tra continuare ad appartenere ai popoli poveri non privilegiati o poter appartenere ai popoli ricchi e privilegiati (il cui status poggia, tuttavia, sul dominio politico, economico e militare sui non privilegiati).
Ciò che invece risulta meno comprensibile – e che manifesta una contraddizione radicale – è che chi vive all’interno dei popoli più privilegiati del pianeta pensi di potersi “schierare” con l’oppresso senza interrogare la propria condizione. Non si può godere della protezione militare garantita da un ombrello atomico, utilizzare ogni giorno tecnologie prodotte da catene di approvvigionamento globali, beneficiare di sistemi sanitari avanzati, infrastrutture stabili, istituzioni politiche solide, e al tempo stesso pretendere di colpire – anche solo simbolicamente – l’ordine che rende tutto ciò possibile. Non si può servirsi dell’apparato tecnico, economico e militare che costituisce la forma contemporanea del privilegio, e poi illudersi di poter sostenere posizioni che, se portate fino alle loro conseguenze, dissolverebbero esattamente quell’apparato.
Questa duplicità – abitare la protezione e desiderare la sua negazione, godere dei frutti dell’ordine e insieme reclamarne il crollo – è la cifra più profonda dell’autoinganno dei popoli privilegiati. È come se l’individuo contemporaneo volesse essere simultaneamente beneficiario e sovvertitore della stessa potenza che lo sostiene: un gesto che non è solo politicamente incoerente, ma ontologicamente impossibile. L’ordine che protegge, infatti, non può essere attaccato senza che chi lo attacca rinunci, nello stesso istante, ai vantaggi che da esso riceve. Ed è proprio questa impossibilità – ignorata, rimossa, e tuttavia decisiva – che segna il limite estremo delle prese di posizione superficiali che, nei Paesi privilegiati, vorrebbero trasformare la solidarietà in un gesto puramente sentimentale, estraneo alla realtà da cui esse stesse traggono senso e possibilità.
A complicare ulteriormente questa contraddizione vi è un fatto che raramente viene riconosciuto: i deboli – i non privilegiati – per poter davvero mettere in discussione l’ordine che li sovrasta, dovrebbero diventare più forti dei forti. Non esiste, nella storia, alcuna possibilità che l’ordine venga rovesciato da chi non dispone della potenza necessaria a sostituirsi a coloro che lo governano. È lo stesso paradosso che emerge nella dialettica servo-padrone: il servo può capovolgere il rapporto solo appropriandosi della forza del padrone, non distruggendo il sistema che li tiene insieme. Perché distruggere il sistema significherebbe distruggere anche la condizione che gli permetterebbe, un giorno, di emanciparsi. Il risultato è che i deboli possono aspirare a ribaltare chi guida l’ordine, ma non l’ordine stesso; possono desiderare di occuparne la posizione dominante, non di dissolverne la struttura. Pensare il contrario – immaginare una vittoria dei deboli resa possibile dalla debolezza stessa – è una delle illusioni più persistenti della modernità e una delle sue più profonde rimozioni: il sogno che la mancanza di potenza possa, per un miracolo politico, generare potenza.
Ma tutto questo – la contraddizione dei privilegiati, l'impossibilità dei deboli di rovesciare l'ordine senza diventare forti, l’illusione di una solidarietà che non intacca le proprie condizioni di esistenza – tutto questo vale nella misura in cui i popoli della terra si sono lasciati da tempo alle spalle la possibilità stessa dell’esistenza di una verità assoluta e incontrovertibile. Se (ma questo “se” pesa come un macigno su l’intero discorso) non esiste più un fondamento che trascenda i rapporti di forza, se non vi è più alcuna istanza superiore capace di giudicare al di là della capacità di imporsi, allora ciò che resta è soltanto il gioco delle potenze. Allora la giustizia diventa il nome che il più forte attribuisce alla propria posizione; e l’ingiustizia, il nome con cui il debole cerca di delegittimare chi lo sovrasta. Ma entrambi i nomi rimangono interni allo stesso orizzonte: quello in cui la verità non è più ciò che sta, ma ciò che viene stabilito dalla forza che prevale.
È questo nichilismo – non dichiarato, ma operante – il suolo su cui si muovono oggi i conflitti del mondo. Non vi è più un ordine che si impone perché vero, ma solo ordini che si impongono perché potenti. E quando la verità scompare, ciò che rimane è la nuda volontà di potenza: da una parte, la volontà di conservare il privilegio; dall’altra, la volontà di conquistarlo. Entrambe legittime, se non vi è più nulla che le trascenda. Entrambe illegittime, per la stessa ragione. Il conflitto israelo-palestinese è, da questo punto di vista, l’immagine più trasparente della condizione contemporanea: un mondo in cui ogni posizione è relativa a un interesse, ogni rivendicazione è espressione di una forza, ogni appello alla giustizia è, in ultima analisi, un appello alla vittoria.
Aggiornato il 01 dicembre 2025 alle ore 10:30
