Mentre Donald Trump rivendica progressi verso la fine della guerra, Mosca marcia in senso diametralmente opposto, stringendo i territori occupati in una morsa che non conosce compromesso e non lascia spazio a un’autentica prospettiva di pace: non un percorso negoziale, ma un progetto di annessione politica e culturale che mira a erodere l’Ucraina come nazione sovrana, cancellandone i riferimenti identitari per sostituirli con un paradigma imposto dall’alto. L’ultima iniziativa firmata da Vladimir Putin, un decreto strategico dal titolo “Politica nazionale russa fino al 2036”, pubblicato il 25 novembre con entrata in vigore attesa a gennaio 2026, ridefinisce gli obiettivi del Cremlino nei territori dell’Ucraina sotto il suo controllo, circa il 20 per cento del Paese, demandando alle autorità di occupazione il compito di rafforzare “l’identità civica russa” attraverso “misure aggiuntive” di consolidamento ideologico e amministrativo.
Il documento elogia l’invasione per aver “creato le condizioni per l’unità dei territori storici dello Stato russo”, incursione lessicale nella geopolitica della memoria che tenta di dare una vernice burocratica a un processo che sul campo assume tratti ben diversi: campagna sistematica di repressione e smantellamento dei simboli di statualità ucraina, della lingua, della toponomastica, della memoria storica e del patrimonio culturale che fanno capo a Kyiv. Nel meridione occupato e nel Donbas, regioni indissolubilmente legate alla storia e alla geografia umana dell’Ucraina, la strategia di Mosca si articola in un riordino coercitivo dell’istruzione, dove il curriculum scolastico impone una narrazione militarizzata, intrisa di imperialismo e ostile alla lettura nazionale che guarda all’Europa, in una pressione amministrativa costante sui civili per indurli all’accettazione del passaporto russo come prerequisito per l’accesso a servizi essenziali, sanità, pensioni e sistema bancario, in leggi che consentono la requisizione delle abitazioni, l’evacuazione forzata e la separazione dei nuclei familiari come strumento di ingegneria demografica. I minori deportati in Russia dall’inizio dell’invasione su larga scala, secondo stime internazionali, ammontano a circa 20mila, trasferiti lontano dalle loro famiglie, privati dei riferimenti culturali della propria terra, sottoposti a un processo di rieducazione ideologica che non risponde a una logica episodica di guerra, ma a un disegno di trasformazione identitaria.
Nel 2023 la Corte penale internazionale dell’Aia ha emesso un mandato d’arresto contro lo stesso Putin per la sua responsabilità personale nei rapimenti di minori, atto formale che sancisce come la portata repressiva del conflitto travalichi il campo della propaganda o dell’azione militare per inserirsi nella sfera dei crimini internazionali più gravi. Nel frattempo il fronte meridionale è divenuto laboratorio di un’escalation mirata contro i civili: l’uso intensivo di droni nei pressi della linea di contatto non risponde a necessità tattiche, ma a un intento di intimidazione e progressiva desertificazione demografica, destinata a trasformare città e villaggi in spazi di esodo forzato. Anche la repressione interna ai territori occupati segue un copione ormai collaudato: un’inchiesta dell’Onu pubblicata nella primavera 2025 ha descritto la rete di arresti arbitrari, sparizioni forzate e deportazioni come un sistema repressivo esteso che colpisce funzionari locali, sacerdoti, giornalisti, veterani e attivisti percepiti come possibili centri di resistenza o dissenso, indagine che ha qualificato le detenzioni di massa come un crimine contro l’umanità. I bombardamenti contro infrastrutture critiche, condotti con un uso massiccio di missili e droni, hanno alimentato nuove ondate di sfollati: nei primi dieci mesi del 2025 le vittime civili sono aumentate del 27 per cento, con un incremento parallelo delle violazioni contro la popolazione non coinvolta nelle operazioni militari.
Nel contesto dei negoziati, il Cremlino non ha mai arretrato dalle condizioni avanzate fin dal primo round del 2022: chiede la demilitarizzazione totale dell’Ucraina, rigidi limiti alle forze armate, l’interruzione di ogni forma di cooperazione militare con l’Occidente e il divieto permanente di aderire alla Nato, pretese che, lette in filigrana, delineano non i confini di una pace possibile, ma la cornice di una futura ripresa del conflitto in circostanze per la Russia più favorevoli. Per Putin non si tratta di un conflitto congelabile tramite concessioni geografiche limitate, ma del fronte attivo di una visione storica e politica che ambisce a restaurare un ruolo imperiale incompatibile con l’esistenza di un’Ucraina democratica, europea, autonoma, sostenuta sul piano militare dall’Occidente e pienamente titolare della propria sovranità statuale.
Dal 2014, con l’annessione della Crimea, la politica interna ed estera di Mosca è stata progressivamente modellata sulla riconquista dell’Ucraina, portando il Cremlino a sacrificare mercati, credibilità internazionale, rapporti commerciali e legami diplomatici con il mondo democratico. Accettare un accordo che lasci la maggior parte dell’Ucraina politicamente autonoma, saldamente agganciata all’Europa e ai partner occidentali, equivarrebbe per il Cremlino a una sconfitta impossibile da derubricare a successo anche tramite l’enorme apparato propagandistico statale. Per questo i colloqui con Washington vengono letti dagli analisti come tattica di rinvio strategico, strumento per guadagnare tempo, dividere il fronte avversario, alleggerire la pressione sanzionatoria e creare una pausa strumentale in vista della possibile ripresa in condizioni di vantaggio. La tesi che Mosca possa essere persuasa tramite concessioni marginali non trova conferme nella postura del Cremlino, il cui orizzonte non è un’Ucraina ridimensionata ma un’Ucraina dissolta, disarmata e internazionalmente isolata.
Escludere la percorribilità di una pace negoziata non equivale tuttavia ad accettare che la guerra sia interminabile: nella lettura più realista, l’unico percorso credibile per avvicinare la fine dell’invasione rimane l’aumento dei costi economici, politici e strategici per la Russia, facendo temere al Cremlino quel collasso di sistema che Putin intende a ogni costo scongiurare, fessura attraverso cui la leva della pressione occidentale può spezzare il ciclo dell’espansione militare. Una pace sostenibile nell’Europa orientale non scaturisce da un’improbabile mediazione tra progetti inconciliabili, ma dalla capacità dei partner occidentali di mantenere unità politica, consolidare l’isolamento economico di Mosca, rafforzare il sostegno militare a Kyiv e costruire per il Cremlino uno scenario in cui l’alternativa al compromesso non sia la vittoria ma il rischio concreto di un arretramento sistemico che oggi il Cremlino teme più di ogni altra cosa. Vladimir Putin sogna di iscriversi alla lunga linea degli autocrati che hanno segnato la storia russa, ma è proprio la sua paura di condividere il destino dei leader travolti dai crolli di sistema – non l’euforia di intese premature – a rappresentare l’unica crepa possibile dentro cui far scorrere l’argomento della pace.
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
Aggiornato il 28 novembre 2025 alle ore 10:20
