La guerra lanciata da Mosca nel febbraio 2022 non si gioca soltanto sui campi di battaglia del Donbas o nei cieli sempre più saturi di droni e missili. È anche, e sempre di più, una prova di resistenza economica. Un’analisi comparativa tra l’economia della Federazione russa e quella dell’Ucraina racconta con chiarezza quanto il peso dell’invasione sia stato asimmetrico: se le sanzioni occidentali e gli attacchi aerei ucraini hanno eroso la solidità del sistema produttivo russo, l’Ucraina ha pagato un prezzo incomparabilmente più alto in termini di manodopera, demografia e risorse finanziarie. Il Paese, costretto a mobilitare milioni di cittadini e a convivere con un costante indebolimento delle proprie prospettive economiche, vede il suo futuro legato non solo al sostegno militare europeo e statunitense, ma soprattutto alla capacità dei partner euro-atlantici di garantire stabilità macroeconomica a lungo termine. Senza questo, nessun negoziato potrà davvero indurre Vladimir Putin a prendere in considerazione il compromesso.
Le misure restrittive varate da Stati Uniti e Unione europea hanno senza dubbio colpito l’economia russa, provocando un esodo di lavoratori qualificati, un ulteriore isolamento tecnologico, l’interruzione o la contrazione dell’accesso a semiconduttori, componenti industriali, know-how digitale e infrastrutture hi-tech, e una crescente dipendenza di Mosca da Pechino, diventata in pochi anni partner imprescindibile per sostituire mercati ed export persi. La Russia continua a vendere idrocarburi su larga scala a Cina e India, e proprio la ricchezza del suo sottosuolo, insieme alla vastità delle riserve di combustibile fossile, le consente di tamponare l’urto. La popolazione russa, oltre 140 milioni di abitanti, la scala industriale ancora imponente e l’immensa macchina propagandistica e statale hanno dato al Cremlino la possibilità di assorbire i contraccolpi e proseguire la guerra, nonostante le perdite e la contrazione del Pil non legato all’energia. Anche le più recenti sanzioni statunitensi contro due colossi del settore energetico russo, pur segnando un passo significativo nell’inasprimento della pressione, non hanno effetti decisivi a breve termine: l’intento punitivo non scardina, da solo, una strategia che Putin considera esistenziale per la stabilità del suo regime e centrale per il suo progetto politico interno ed imperiale.
A Kyiv, invece, la situazione resta ben più fragile. Il quarto inverno di conflitto si preannuncia il più duro dall’avvio dell’invasione su vasta scala, con città e infrastrutture energetiche sotto il tiro di droni prodotti in numero crescente dalla nascente industria bellica russa, che nell’ultimo anno ha moltiplicato impianti e forniture, convertendo stabilimenti e linee produttive per mantenere un ritmo di attacchi oggi più sostenuto. Per l’Ucraina, i blackout ripetuti – in particolare nelle aree a est e centro – non significano solo disagi civili: deprimono il morale collettivo, rallentano la produzione industriale e militare, rendono irregolari i turni lavorativi, complicano logistica e risposta antiaerea, incidono sui costi di gestione dell’apparato statale e aggravano la perdita di produttività. Le stime degli esperti energetici parlano di un fabbisogno immediato di 2,5 miliardi di dollari per l’importazione di gas naturale sufficiente a superare la stagione invernale, mentre sul fronte, l’esercito ucraino soffre un logoramento quotidiano, dovendo fronteggiare non solo l’avanzata russa in settori come Pokrovsk e Vuhledar, ma anche una persistente crisi di personale e rotazioni in prima linea. Il Cremlino scommette apertamente sull’usura della resistenza ucraina e, in parallelo, su un fisiologico calo dell’impegno occidentale, confidando che il tempo lavori per disunire le democrazie e stancare l’opinione pubblica europea e americana.
In questo scenario, l’Occidente non può più limitarsi a misure di emergenza. Serve una strategia strutturale. La priorità resta sbloccare l’utilizzo dei beni russi congelati in giurisdizioni europee. L’Unione europea ha discusso un piano di prestito di riparazione da 160 miliardi di dollari per coprire le lacune di bilancio di Kyiv, ma l’ipotesi si è arenata sulle resistenze del Belgio, che teme contromisure legali russe e ritorsioni giudiziarie sul proprio sistema finanziario. Bruxelles è ora di fronte a un bivio: lasciare gli asset immobilizzati, rinunciando a un’iniziativa di portata strategica, o costruire un fronte di garanzie politiche condivise. L’Ue ha chiesto che tutti gli Stati membri offrano garanzie formali sul prestito per minimizzare il rischio. Anche la possibile soluzione che coinvolgerebbe la Norvegia come garante non ha avuto finora esito positivo: Oslo non accetta un ruolo di garanzia isolato e chiede un quadro collettivo. In questo contesto, gli Stati Uniti potrebbero usare la propria influenza politica per disinnescare le diffidenze europee, sapendo che alternative al prestito – come pacchetti bilaterali scollegati o supporti non coordinati – sarebbero non solo insufficienti, ma dannosi sul piano simbolico e politico, comunicando un indebolimento della fermezza occidentale nei confronti di Mosca.
L’eventuale sblocco degli asset congelati potrebbe, inoltre, creare spazio per un “mega accordo” sulle forniture di armamenti: un ampio pacchetto in cui l’Ucraina acquisterebbe armi dagli Stati Uniti attingendo a 90 miliardi di dollari sostenuti da capitali europei, con un co-finanziamento coordinato attraverso SAFE, il meccanismo europeo da 170 miliardi destinato ad azioni di sicurezza continentale. Un coordinamento di questo tipo, oltre a rafforzare la base industriale della Nato, accelererebbe consegne critiche, garantendo flussi più rapidi di munizioni, sistemi antidrone, difesa aerea e capacità missilistiche di precisione. Se l’investimento appare oneroso nel breve periodo, la ratio strategica rimane solida: il costo di sostenere l’Ucraina oggi resta infinitamente più basso della spesa difensiva che Stati europei e Stati Uniti dovrebbero affrontare domani, qualora Mosca consolidasse le proprie mire territoriali.
Sul piano interno, l’Ucraina attraversa anche una crisi politica, scossa dal più grande scandalo di corruzione emerso durante il periodo bellico, che rischia di offrire a Mosca argomenti narrativi per delegittimare la resistenza di Kyiv. Eppure, malgrado l’incertezza politica e le difficoltà economiche, l’opinione pubblica ucraina resta compatta nella difesa dell’indipendenza e determinata a resistere. In Russia, invece, la percezione dei costi economici crescenti non ha per ora scalfito la convinzione di Putin, che considera il controllo politico dell’Ucraina obiettivo prioritario rispetto alle stesse perdite interne e alla contrazione economica indotta dalle sanzioni, confermando una fissazione che trascende motivazioni strettamente economiche. L’intelligence statunitense lo ha ribadito con nettezza: il leader del Cremlino è più determinato che mai a prevalere e non appare incline al negoziato se non a fronte di costi percepiti come intollerabili per la tenuta del regime.
Per questo, la leva decisiva resta l’economia ucraina. Rafforzarne la resilienza, mantenerne il funzionamento statale, garantirne liquidità, salari, approvvigionamenti energetici, spesa industriale e ricostruzione infrastrutturale – mentre prosegue il confronto militare – significa inviare un messaggio politico inequivocabile: l’Occidente non punta a un accordo frettoloso, non sacrifica la sovranità ucraina e resta disposto a sostenere il Paese per tutto il 2026 e oltre. Solo quando il Cremlino riconoscerà che la guerra non può essere vinta economicamente, oltre che militarmente, la pace potrà diventare, finalmente, un’opzione reale.
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
Aggiornato il 27 novembre 2025 alle ore 15:44
