Taiwan: il ritorno alla Cina non è un’opzione

Il premier taiwanese ha dovuto rimarcare che la Repubblica di Cina è un Paese pienamente sovrano e indipendente”. Cho Jung-tai, dopo la telefonata tra Pechino e Donald Trump, ha respinto le rivendicazioni del presidente cinese Xi Jinping illustrate al commander-in-chief americano, in merito al ritorno dell’isola sotto la sua egida come “un elemento chiave dell’ordine internazionale del Secondo dopoguerra”. Per Cho, dunque, “per i 23 milioni di abitanti della nostra nazione, il ritorno non è un’opzione, questo è molto chiaro”.

Nel corso degli ultimi mesi Taipei ha più volte denunciato quelli che definisce i “maldestritentativi di Pechino di reinterpretare il lascito politico e giuridico della Seconda guerra mondiale, conclusasi 80 anni fa, ricordando che l’isola fu trasferita alla Repubblica di Cina dopo la resa del Giappone. Un richiamo storico che contrasta con la narrativa della Repubblica popolare cinese, fondata solo nel 1949 dopo la vittoria delle truppe di Mao Zedong nella guerra civile e che considera Taiwan una parte “sacra” e “inalienabile” del proprio territorio, da riunificare anche con la forza. Le rivendicazioni legali cinesi si fondano sulle dichiarazioni del Cairo e di Potsdam, che tuttavia molti governi giudicano meri orientamenti politici privi di valore giuridicamente vincolante.

Parallelamente, Pechino ha incrementato la pressione militare e diplomatica sull’isola, rilanciando l’offerta del modello “un Paese, due sistemi”, già applicato a Hong Kong e Macao. Un’impostazione che oggi non trova più sostegno nei partiti taiwanesi tradizionali, anche alla luce dell’evoluzione delle due ex colonie, e che è stata nettamente respinta dal presidente William Lai, indicato dai vertici cinesi come un “piantagrane” e un “fautore dell’indipendenza”. Le tensioni hanno superato i confini dello Stretto, investendo anche i rapporti tra Cina e Giappone. Alla luce dell’inasprimento delle pressioni cinesi sul fronte taiwanese, Tokyo e Pechino hanno registrato un ulteriore irrigidimento diplomatico, evidente durante il recente G20 in Sudafrica, dove non c’è stato alcun contatto diretto tra la premier giapponese Sanae Takaichi e il premier cinese Li Qiang.

La controversia è anche approdata, nella notte, alle Nazioni unite. L’ambasciatore giapponese Kazuyuki Yamazaki ha infatti scritto al segretario generale António Guterres per respingere la richiesta cinese di ritrattare le affermazioni della premier Takaichi, che il 7 novembre aveva definito un eventuale attacco cinese a Taiwan una “situazione minacciosa per la stessa sopravvivenza del Giappone”. Parole che Pechino ha interpretato come un segnale di possibile coordinamento militare tra Tokyo e Washington nel caso di un blocco marittimo o di altre misure coercitive contro l’isola. La stampa nipponica ha evidenziato come a Johannesburg i due leader asiatici non si siano nemmeno incrociati, mentre da Pechino il ministro degli Esteri Wang Yi ha accusato Takaichi di aver “oltrepassato una linea rossa” inviando un messaggio destabilizzante sulla questione taiwanese.

Pur senza arretrare, la premier ha ribadito la disponibilità del Giappone a costruire relazionivantaggiose, costruttive e stabili”, precisando tuttavia che resta indispensabile “dire ciò che deve essere detto” alla leadership cinese. L’innalzamento repentino della tensione ha avuto immediate ricadute anche sul piano economico: Pechino ha esortato i propri cittadini a rivalutare i viaggi verso il Giappone e ha ripristinato il divieto sulle importazioni di prodotti ittici nipponici. Tokyo, dal canto suo, ha respinto in modo categorico le richieste di “ritrattare le dichiarazioni”, ricordando che la posizione della premier rientra nella dottrina di sicurezza nazionale consolidata nel tempo.

Aggiornato il 25 novembre 2025 alle ore 15:50