La lezione del coraggio

Prima di cominciare una lezione online, Tetyana chiude la finestra. Parla in ucraino, ma sottovoce, con cautela. Suo marito e suo figlio fanno la guardia alla porta, pronti a dare l’allarme se qualcuno dovesse bussare. È così che si vive sotto occupazione: in silenzio, con la paura costante che qualcuno possa ascoltare una parola di troppo. Un giorno, quella paura si concretizza davvero. Soldati russi irrompono nella sua casa, la perquisiscono, minacciano il marito, interrogano il figlio. Da quel momento, la paura diventa parte della loro quotidianità, una presenza fissa come l’aria che respirano. Tetyana, originaria della regione di Zaporizhia, ha vissuto due anni sotto occupazione prima di riuscire a fuggire. Oggi insegna di nuovo danza in un territorio libero, dove la lingua ucraina non è un rischio ma una gioia. “Posso finalmente tirare un sospiro di sollievo”, racconta, ricordando i giorni in cui per continuare a lavorare doveva nascondere i costumi tradizionali in sacchi, le bandiere dell’Ucraina nel frigorifero, i premi dentro scatole di caramelle. Per evitare sospetti, accettò un impiego in un negozio, mentre continuava di nascosto a insegnare ai bambini a ballare online. Le lezioni duravano al massimo quaranta minuti, abbastanza per non dare nell’occhio. Sceglieva la musica con cura, preferendo brani senza parole o in lingue straniere, e raccomandava ai suoi studenti di non parlare con nessuno delle lezioni.

Era un lavoro clandestino, una forma di resistenza silenziosa. Nella sua città, le scuole erano ormai passate sotto il controllo delle autorità russe. I programmi scolastici venivano riscritti per trasformare i bambini ucraini in piccoli cittadini del cosiddetto “mondo russo”, insegnando loro cosa fosse una “cattiva Ucraina”. Gli insegnanti che si opponevano venivano minacciati, licenziati, accusati di estremismo. Bastava un commento critico sulla guerra o un post sui social per finire in carcere o essere multati. In Crimea, una maestra è stata punita con 45mila rubli di multa per aver espresso sostegno all’Ucraina, un’altra licenziata per aver cantato l’inno nazionale. Tetyana sapeva bene cosa rischiava, ma non poteva smettere di insegnare. “Se i bambini volevano studiare, come avrei potuto rifiutare?”, dice. Così, ogni giorno, tra un rumore sospetto e una connessione instabile, continuava le lezioni. Dopo ogni collegamento, nascondeva il computer dietro la vasca da bagno. Suo marito e suo figlio controllavano la strada, pronti a spegnere tutto se avessero visto dei soldati. Nel dicembre del 2024, la loro casa fu perquisita. I militari minacciarono la famiglia, imposero loro di accettare passaporti russi e promisero di tornare per controllare. Da allora, il silenzio nell’appartamento divenne ancora più pesante. Il figlio di Tetyana non uscì più di casa per settimane. “Non dormiva. Bastava un rumore e correva alla finestra”, racconta. Dopo mesi di terrore, grazie all’aiuto di un’organizzazione di volontari, riuscirono a fuggire verso il territorio ucraino. “Qui, anche sotto i droni, non è così spaventoso come quando arrivava un’auto sotto casa. Ora, quando sento Chervona Kalina e i bambini cantano, sento che la mia vita torna a respirare”. La storia di Maria, un’altra insegnante, è diversa ma simile nella paura. Lei viveva nella regione di Kherson, occupata fin dai primi giorni dell’invasione. Si era rifiutata di adattarsi ai programmi russi e per questo fu arrestata nel settembre 2022.

Ricorda il momento in cui sette uomini armati irruppero in casa sua: “Ho nascosto i telefoni sotto il divano, erano la mia unica finestra sull’Ucraina. Se li avessero trovati, non sarei qui a parlarne”. Fu portata via in vestaglia, fotografata come una criminale, rinchiusa in una stanza spoglia con un materasso per bambini sporco. Restò in cella quasi una settimana, con un pasto al giorno e la paura costante di essere deportata. Dalla finestra con le sbarre vide passare il suo ex preside, già arrestato mesi prima. Le accuse contro di lei erano assurde: aver lavorato con studenti ucraini, aver partecipato a manifestazioni pacifiche, aver usato libri “sospetti”. Alla fine fu rilasciata perché malata, ma le ordinarono di lasciare la città. Fuggì all’estero, dove oggi continua a insegnare online ai suoi studenti, molti dei quali vivono ancora sotto occupazione. Ogni volta che si collega, raccomanda loro di non dire a nessuno che studiano con una scuola ucraina. “Quando sento un aereo, ancora mi abbasso istintivamente. Anche se so che qui non verranno a prendermi”.

Le storie di Tetyana e Maria non sono eccezioni. Secondo il Ministero dell’Istruzione ucraino, all’inizio del 2025 circa 600mila bambini si trovavano nei territori occupati, ma solo il 7 per cento riusciva ancora a studiare attraverso il sistema educativo ucraino online. Ogni anno, quel numero diminuisce, schiacciato da minacce, arresti e dal controllo di Internet. Gli insegnanti, spiega l’analista legale Karim Asfari del progetto internazionale The Reckoning Project, hanno diritto alla libertà accademica, alla sicurezza e alla protezione da coercizioni ideologiche. Ma nei territori occupati questi principi sono carta straccia. Là, la conoscenza è diventata un crimine, la lingua ucraina una prova d’accusa, e l’insegnamento un atto di resistenza. Oggi Tetyana insegna danza ai bambini di un piccolo centro libero dell’Ucraina, Maria dà lezioni online da un paese europeo. Entrambe hanno perso la casa, il lavoro, la tranquillità. Ma non la voce. In quella voce, pronunciata a bassa voce dietro una finestra chiusa, c’è la forza di un popolo che, anche sotto la minaccia delle armi, continua a insegnare ai propri figli a essere liberi.

(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza

Aggiornato il 10 novembre 2025 alle ore 10:52