
La vera abilità (karmatica?) di Donald Trump risiede in quello stare a proprio agio “In the Middle”. Il primo aspetto riguarda il “Middle Est”, ovvero il famoso Medio Oriente, in cui la sua pace frettolosa rischia di divenire un passero caduto prematuramente a terra con tutto il nido, senza le garanzie delle armi americane, né tantomeno la presenza in loco di contingenti militari arabo-turchi schierati a Gaza. L’altro suo mezzo guado è rappresentato dalle elezioni di “Mid-term”, in cui la Casa Bianca rischia ogni volta di perdere la sua maggioranza al Congresso e al Senato. In quell’occasione, infatti, si rinnovano, nell’ordine: tutti i seggi della Camera dei rappresentanti (che, quindi, vanno collettivamente a casa ogni due anni); un terzo di quelli del Senato; la maggior parte delle cariche esecutive (a partire dai governatori) dei singoli Stati della federazione. Come si vede, un terremoto elettorale, una specie di Recall (riconteggio, letteralmente) di massa, voluto dai padri costituenti americani, in modo da rendere il potere esecutivo sempre accountable (responsabile e non totalitario) dinnanzi al giudizio degli elettori. Quando un presidente perde la sua maggioranza parlamentare, diviene una “Anatra zoppa” (Lame Duck), essendo obbligato a una sorta di coabitazione alla francese (divided government, o “Governo condiviso” per gli Usa), onde per cui il potere presidenziale è costretto a scendere a patti con i rappresentanti parlamentari, per far approvare alle Camere i provvedimenti legislativi di suo interesse.
Com’è noto, i due presidenzialismi, americano e francese, differiscono tra di loro per il fatto che negli Usa il presidente è anche il capo dell’Esecutivo, mentre invece in Francia è lui stesso a nominare il primo ministro (che, poi, gioca un ruolo di ammortizzatore e mediatore tra la Presidenza e l’Assemblée) e ha il potere di sciogliere il Parlamento. Aspetto quest’ultimo del tutto precluso al suo omologo Usa, in quanto la data e la periodicità di rinnovo del Parlamento e della Presidenza sono fissati dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America. Ora, però, sarà meglio soffermarsi sull’enorme posta in gioco della Pax trumpiana (che, per il momento, è poco meno di una tregua) e degli “Accordi in 20 punti” per mettere fine agli scontri a Gaza tra gli israeliani e Hamas. Qui la pace transazionale trumpiana (fondata sul principio che “io do una cosa a te, e tu in cambio né dai una, o più, a me”) non sembra aver funzionato più di tanto. Questo perché i mediatori (arabi, musulmani e americani), hanno commesso l’errore di dare per scontato il principio astratto in base al quale “pacta sunt servanda”, senza stare lì però a progettare e insediare preliminarmente, o quanto meno contestualmente, l’autorità, la composizione e l’entità delle forze militari di interposizione e di pacificazione, nonché quelle di polizia, da disporre sul teatro degli scontri per il rispetto di quei patti sanciti con una stretta di mano. In pratica, è tutta qui la differenza politica che intercorre tra il “gestuale” e il “fattuale”.
Certo, nel caso di Gaza, a mettere fine a due anni incredibili di caos e alle indicibili sofferenze della popolazione civile è stato il decisionismo di Trump, che ha voluto sottrarre la mediazione di pace alle astuzie diplomatiche dalle mille trappole lessicali, per affidarla a uomini degli affari (il duo Steven Wittkoff-Jared Kushner), dei quali era certo che sarebbero andati immediatamente al concreto delle cose da trattare. Lo hanno fatto solo grazie al sostegno pieno della sua autorevolezza, essendo Trump l’unico a poter condizionare le mosse di Bibi Netanyahu che, infatti, ha prima costretto a scusarsi in sua presenza con l’Emiro del Qatar, e poi a firmare l’Accordo di pace in 20 punti. Paradossalmente, osserva The Economist, per quanto riguarda il Medio Oriente, Trump ha sposato la sua imprevedibilità (che in diplomazia è tutto un gioco caotico di luci e ombre) con l’intuito felino dei limiti, ai quali si deve confrontare nella regione il potere politico-militare americano. In tal senso, la tragedia dell’invasione dell’Iraq è una ferita impossibile da rimarginare e dimenticare. Così Trump ha accettato di conseguenza l’incertezza intrinseca dei risultati della sua azione di mediatore, cosa che pochissimi altri presidenti al suo posto avrebbero potuto o saputo rischiare. Per capire la mentalità di Trump (seminare il cos, per poi determinarne le leggi che lo regolano), basta prendere la guerra dei 12 giorni Iran-Israele. Nessuno, all’inizio, poteva mai credere che l’America, finalmente, prendesse il toro per le corna e facesse tremare dalle fondamenta il regime degli Ayatollah, spedendo centinaia di aerei sui cieli di Teheran, partiti da basi lontane migliaia di chilometri, per poi radere al suolo l’intero potenziale nucleare di Teheran.
Nessun presidente degli Stati Uniti prima di Trump, aveva osato fare nessuna mossa concreta per colpire il regime sciita dopo il sequestro nel 1979 dei suoi diplomatici nell’Ambasciata americana, nel timore dell’esplosione di un conflitto Iran-Usa che nessuno in America sapeva di poter sostenere, tantomeno dopo la tragedia irakena. Ma, il colpo di genio di Trump è avvenuto immediatamente dopo che i bombardieri B2 avevano raso al suolo gli impianti nucleari iraniani, quando una volta compiuta la missione, e senza lasciare il tempo al Pentagono di riscontrare l’effettività dei danni subiti dai siti stessi, dichiarò questi ultimi semplicemente “obliterated” (distrutti cioè dalle fondamenta). Obbligando così Israele a sospendere (cosa che Netanyahu da allora ha sempre lamentato come “un lavoro non finito”) i bombardamenti e l’eliminazione dei vertici politico-militari di Teheran. In tal modo Trump ha potuto vantarsi di avere costretto alla tregua/pace i due contendenti, dicendosi perfino disposto a parlarne direttamente con gli iraniani per pacificare la regione. Azzardo ancora una volta riuscito: il regime sciita è in ginocchio, in termini militari, politici, economici e sociali, mentre i suoi proxy (Hamas, Hezbollah, Houthi) sono tutti allo sbando, in primis perché azzerati dall’assoluta superiorità aerea e di intelligence di Israele, ma anche in via subordinata piegati dall’America, che ha sostenuto militarmente Israele, condividendo con Tel Aviv non poche informazioni sensibili.
La stessa cosa è accaduta per la Siria, alla quale in precedenza l’America aveva imposto durissime sanzioni per spodestare il sanguinario regime di Bashar al-Assad. Malgrado numerosi pareri contrari in seno all’Amministrazione, Trump ha rimosso quelle sanzioni e dato credito al nuovo presidente ex-jiahdista, Ahmed al-Sharaa, per la ricostruzione democratica della Siria. Sempre però lasciando mano libera a Israele di livellare con la sua aviazione le punte di pericolosità eversiva, laddove necessario. E una cosa analoga è successa a Gaza: non più alambicchi mentali ed estenuanti mediazioni, ma un impegno transattivo autentico che ha fatto fare un balzo in avanti persino alla strategia degli Accordi di Abramo. Lasciamo allora alla Storia la risposta a proposito di questa trumpiana miscela di caos e ordine.
Aggiornato il 22 ottobre 2025 alle ore 10:18