Cronaca storica di uno stato mai voluto (dagli arabi)

La storia della mancata nascita di uno Stato palestinese non può essere ridotta alla sola responsabilità di Israele o delle potenze occidentali, questo perché essa consiste in una vicenda molto più complessa, stratificata, segnata da scelte politiche, ideologiche e strategiche che, nel corso di quasi un secolo, hanno visto gli stessi arabi e palestinesi respingere ripetutamente le occasioni che avrebbero potuto condurre alla costituzione di una loro entità statale indipendente. La tragedia palestinese, divenuta simbolo di ingiustizia e dolore in tutto il mondo arabo, affonda le sue radici anche nelle divisioni, nelle rivalità e nelle contraddizioni interne che hanno caratterizzato il movimento nazionale palestinese e i governi arabi che dichiaravano di sostenerlo. Tutto ebbe origine nel 1947, quando le Nazioni Unite approvarono il Piano di partizione della Palestina, prevedendo la creazione di due Stati: uno ebraico e uno arabo-palestinese.

La proposta assegnava agli ebrei una porzione di territorio relativamente piccola, ma sufficiente a garantire un punto di partenza per l’edificazione di un proprio Stato dopo secoli di diaspora e persecuzioni culminate nella Shoah. Il movimento sionista accettò la decisione, vedendola come una base di compromesso per la pace, ma gli arabi palestinesi e i Paesi arabi circostanti, rigettarono con forza il piano, considerandolo illegittimo e offensivo. Allora, a riprova della loro malafede, le cinque nazioni arabe (Egitto, Siria, Libano, Giordania e Iraq) il 15 maggio del 1948 invasero lo Stato di Israele nel tentativo di cancellarlo alla nascita (avvenuta appena il giorno prima, il 14 maggio 1948), proclamato dal leader dell’Agenzia ebraica David Ben, poche ore prima della fine del mandato britannico. La guerra si risolse in una disfatta per gli arabi e Israele non solo resistette, ma addirittura ampliò i propri confini oltre quelli previsti dal piano Onu.

La Cisgiordania fu annessa alla Giordania, mentre Gaza passò sotto il controllo dell’Egitto e nessuno dei Paesi arabi, tuttavia, prese in considerazione l’idea di creare uno Stato palestinese nei territori sotto il proprio dominio. In sostanza, la Palestina fu spartita tra potenze arabe, mentre centinaia di migliaia di profughi palestinesi si ritrovarono confinati (dagli stessi “amici” arabi) nei campi ai margini delle nuove frontiere, spesso privi di diritti e di prospettive. Invero, nei decenni successivi, la questione palestinese divenne uno strumento di propaganda per i regimi arabi, utile a consolidare il consenso interno e a giustificare politiche autoritarie e fallimenti economici. “Liberare la Palestina” divenne un mantra, ma nessun Governo arabo mostrò un reale interesse a promuovere una soluzione politica autonoma.

Le leadership arabe preferirono mantenere il popolo palestinese in una condizione di perenne emergenza, in modo da tenere vivo un nemico esterno – Israele – e con esso un pretesto di unità panaraba che nella realtà non esisteva. Le guerre del 1956, del 1967 e del 1973 confermarono questa logica, ossia guerre combattute “in nome della Palestina” ma decise da Governi arabi mossi da interessi propri. La sconfitta del 1967, con la perdita da parte araba della Cisgiordania, di Gaza, del Sinai e delle alture del Golan, segnò la definitiva frattura tra la retorica e la realtà. Quindi, fu proprio in questo contesto che l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), fondata nel 1964, cercò di riappropriarsi della causa palestinese, rivendicando il diritto all’autodeterminazione.

Tuttavia, anche l’Olp, sotto la guida di Yasser Arafat, oscillò a lungo tra diplomazia e lotta armata, tra il tentativo di costruire un progetto nazionale e la subordinazione agli equilibri interni del mondo arabo. In seguito, solo dopo decenni di scontri e di terrorismo, e dopo l’ennesima disfatta della prima intifada, Arafat comprese che non esisteva alternativa al negoziato. Gli Accordi di Oslo del 1993 rappresentarono così il primo vero riconoscimento reciproco tra israeliani e palestinesi, in quanto rappresentò un passo storico che prevedeva la creazione graduale di un’autonomia palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, preludio alla nascita di uno Stato. Tuttavia, quella speranza durò poco, l’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico israeliano, la diffidenza crescente delle opinioni pubbliche e la frammentazione del fronte palestinese, fecero deragliare il processo.

Pertanto, anche in questa fase cruciale, il mondo arabo non seppe o non volle sostenere con convinzione il percorso verso la pace, perché le potenze regionali, come Siria e Iran, preferirono finanziare i movimenti più radicali, da Hezbollah ad Hamas, alimentando la logica del conflitto permanente. Nel 2005, quando Israele si ritirò unilateralmente da Gaza sotto la guida di Ariel Sharon, smantellando gli insediamenti e ritirando l’esercito, si aprì per i palestinesi una nuova occasione storica. Difatti, per la prima volta i palestinesi avevano il controllo pieno di un territorio e la possibilità di sperimentare l’autono, ma quella che poteva essere la culla del futuro Stato palestinese si trasformò presto in una trappola.

Hamas, vincendo le elezioni del 2006 e poi prendendo il potere con la forza nel 2007, instaurò a Gaza un regime autoritario e teocratico, in aperto contrasto con l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen in Cisgiordania. Da allora, il popolo palestinese è rimasto diviso in due entità politiche contrapposte, incapaci di definire una strategia comune e spesso più interessate a delegittimarsi reciprocamente che a costruire un futuro condiviso. Inoltre, a ciò si aggiunge l’atteggiamento del Governo israeliano, soprattutto nelle lunghe stagioni politiche guidate da Benjamin Netanyahu, che ha sistematicamente minato il processo di pace attraverso l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania e la scelta di tollerare, se non di favorire, la forza di Hamas per indebolire i moderati di Fatah. Pertanto, anche ammettendo la responsabilità israeliana nella perpetuazione dello status quo, resta innegabile che le principali occasioni per la nascita di uno Stato palestinese sono state perdute per mano degli stessi dirigenti palestinesi e arabi: dal rifiuto del piano Onu del 1947, al rigetto degli accordi successivi, fino alle divisioni interne che hanno trasformato Gaza e Cisgiordania in due entità rivali.

La tragedia della Palestina, dunque, non è solo quella di un popolo privato della sua terra, ma anche quella di una causa smarrita tra retorica e realtà. Perciò, ogni volta che si è affacciata la possibilità di costruire uno Stato, la scelta è ricaduta sull’intransigenza o sulla guerra. Le dirigenze arabe e palestinesi hanno preferito dire “no” a uno Stato imperfetto, ma possibile, piuttosto che accettare il compromesso necessario a costruirne uno reale. Così, a oltre settant’anni dal primo rifiuto, la Palestina continua a non esistere come Stato sovrano, e il suo popolo continua a vivere in una condizione sospesa tra memoria, rabbia e disillusione, ovvero una condizione che è, al tempo stesso, il prodotto delle ingiustizie subite e delle scelte mancate.

Aggiornato il 21 ottobre 2025 alle ore 11:19