Se telefonando...

C’è sempre un significato, quando Vladimir Putin alza il telefono. La chiamata di ieri a Donald Trump non fa eccezione: arriva alla vigilia dell’incontro tra Volodymyr Zelenskyy e l’amministrazione americana, proprio mentre a Washington si discute della possibile fornitura dei missili Tomahawk. Un tempismo troppo perfetto per essere casuale, che restituisce l’immagine di un Cremlino abile nel mescolare minacce e segnali di apertura ogni volta che si sente messo alle corde. È il vecchio copione del baro della diplomazia internazionale, che tenta ancora una volta di guadagnare tempo, confondere gli avversari e rimettere mano alle carte sul tavolo. Il colloquio, descritto da entrambe le parti come “franco e diretto”, ha portato Trump ad annunciare che i consiglieri di alto livello dei due Paesi si riuniranno già la prossima settimana per avviare un nuovo ciclo di negoziati. A questo incontro tecnico seguirà un vertice tra i due leader, previsto a Budapest, che potrebbe rappresentare un passaggio decisivo nella definizione delle prossime mosse sulla guerra in Ucraina. Resta da capire se la diplomazia, dopo mesi di stallo, stia davvero tornando a muoversi sul filo sottile che separa la trattativa dall’escalation, o se siamo di fronte all’ennesima manovra dilatoria di Mosca.

Il dibattito sull’invio dei missili Tomahawk all’Ucraina segna una nuova e delicata fase del conflitto, e con essa cresce la tensione tra Washington e Mosca. Il Cremlino, per bocca del portavoce Dmitrij Peskov, ha parlato di un “momento drammatico” e di “estrema preoccupazione”, mentre l’ex presidente russo Dmitrij Medvedev è tornato al suo consueto linguaggio minaccioso, evocando persino il rischio di una catastrofe nucleare e indirizzando le sue parole direttamente a Donald Trump. Anche Aleksandr Lukashenko, fedele alleato di Putin, ha rincarato la dose, avvertendo che l’arrivo dei Tomahawk in Ucraina potrebbe “trascinare il mondo nella guerra nucleare”. È evidente perché Mosca tema tanto questi missili: con una gittata che può superare i 2.500 chilometri, i Tomahawk darebbero a Kyiv la possibilità di colpire in profondità il territorio russo, ampliando in modo significativo la portata dei suoi attacchi. Finora l’Ucraina è riuscita a infliggere danni notevoli alle infrastrutture militari e industriali russe grazie a droni e missili di produzione propria; l’aggiunta di armamenti americani di tale potenza cambierebbe sensibilmente l’equilibrio delle forze. La domanda cruciale, tuttavia, è se le minacce russe vadano davvero prese sul serio. Dall’inizio della guerra, Putin e i suoi uomini hanno tracciato infinite “linee rosse” che poi non hanno mai difeso. Ogni volta che l’Occidente ha superato uno di questi limiti – dalla fornitura dei Javelin e dei Patriot fino ai carri Leopard e ai caccia F-16 – Mosca ha reagito con toni apocalittici, senza però mai tradurre le parole in azioni. Le promesse di “terribili ritorsioni” sono rimaste sistematicamente lettera morta.

È un copione ormai noto: il Cremlino usa la minaccia nucleare come strumento di intimidazione, nel tentativo di frenare l’appoggio occidentale a Kyiv. Questo ricatto psicologico ha spesso funzionato, rallentando decisioni cruciali e alimentando la convinzione che aiutare troppo l’Ucraina significhi “provocare Putin”. In realtà, tale prudenza non ha fatto che rafforzare la posizione del leader russo, consentendogli di prolungare il conflitto e di mantenere un’influenza sproporzionata rispetto alle reali capacità del suo esercito, logorato e demoralizzato. L’esperienza degli ultimi tre anni e mezzo dimostra chiaramente che le minacce di Mosca sono, in gran parte, bluff. Ogni “red line” dichiarata è stata superata senza conseguenze, e ogni arretramento russo è stato poi mascherato da “gesto di buona volontà”. Putin, di fronte ai fallimenti militari e alle perdite subite, ha imparato a ridimensionare i toni dopo ogni sconfitta. Per questo motivo, credere oggi alla possibilità di una reazione nucleare appare poco realistico: se davvero intendesse colpire, avrebbe avuto molte occasioni per farlo. In questo contesto, la decisione di Donald Trump rappresenta un punto di svolta. Negli ultimi mesi il presidente americano sembra aver cambiato atteggiamento: ha iniziato a deridere l’esercito russo, definendolo una “tigre di carta”, e ha dichiarato che l’Ucraina è ormai in grado di vincere la guerra.

Questo cambio di tono riflette la crescente frustrazione di Washington nei confronti di Putin, che avrebbe respinto diverse proposte di compromesso avanzate dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo, l’amministrazione americana appare sempre più convinta che Mosca sia in difficoltà, logorata economicamente e incapace di ottenere risultati concreti sul campo di battaglia. Alcuni osservatori ipotizzano che Trump stia giocando una partita strategica: minacciare l’invio dei Tomahawk per spingere Putin a sedersi al tavolo dei negoziati, senza necessariamente arrivare a consegnarli davvero. Ma anche se i missili dovessero effettivamente raggiungere Kyiv, non cambierebbero da soli l’esito del conflitto. Rappresenterebbero però un segnale politico fortissimo: la fine della paura occidentale di “provocare” Mosca. Per la prima volta, gli Stati Uniti mostrerebbero di non lasciarsi più intimidire dalle minacce nucleari del Cremlino e di essere disposti a spingersi oltre, fino a costringere Putin a trattare da una posizione di debolezza. In definitiva, il confronto sui Tomahawk va ben oltre la questione militare: è una prova di nervi tra paura e fermezza. Putin ha costruito la propria strategia sulla convinzione che l’Occidente, terrorizzato dallo spettro dell’escalation, non avrebbe mai osato sfidarlo apertamente. Ora Trump ha l’occasione di smentirlo e di dimostrare che la forza, in politica internazionale, non sempre risiede nelle armi, ma nella volontà di usarle quando è necessario. Se davvero il presidente americano deciderà di smascherare il bluff di Putin, potremmo assistere a un cambiamento decisivo nelle dinamiche della guerra – e forse, paradossalmente, a un passo in più verso la pace.

 

(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza

Aggiornato il 17 ottobre 2025 alle ore 10:55