
Quando la natura diventa soggetto di diritti, l’uomo torna suddito. L’ultimo fiume libero d’Europa rivela il volto autoritario dell’ambientalismo contemporaneo.
Ogni epoca ha la sua ideologia dominante. La nostra ha scelto l’ambientalismo, elevato a nuova religione civile. Nell’epoca attuale non si parla più di libertà, ma di “diritti della natura”; non si discute di limiti al potere, piuttosto di limiti all’uomo. Il caso del fiume Vjosa, in Albania ‒ l’ultimo grande corso d’acqua europeo rimasto intatto, ora sotto tutela Unesco ‒ è diventato il simbolo di questo rovesciamento. Per proteggere un fiume, si teorizza che la natura debba essere soggetto di diritto. Tuttavia, tutte le volte che si spoglia l’individuo della sua centralità, si prepara il terreno a un nuovo dominio: quello di chi, in nome della natura, parla e decide per tutti.
Il fiume indicato, lungo 190 chilometri, scorre libero dai monti del Pindo fino all’Adriatico. È un ecosistema prezioso, ma anche un territorio abitato da secoli, plasmato dal lavoro umano. Agricoltura, pesca, piccoli insediamenti e forme di economia locale hanno reso viva la sua valle. Oggi, invece, le comunità che vi vivono rischiano di essere marginalizzate: la tutela internazionale si traduce in vincoli, divieti, permessi, regolamenti che spesso proteggono più la burocrazia che la biodiversità.
Non è un caso isolato. La storia è piena di “tutele” che, nel nome del bene comune, hanno finito per sottrarre agli individui la gestione dei propri luoghi. In epoca romana, ad esempio, le terre considerate “pubbliche” ‒ le ager publicus ‒ finirono presto nelle mani dei pochi che avevano accesso al potere, mentre i piccoli proprietari, privati delle loro parcelle, scivolarono nella dipendenza. Ogni volta che la proprietà si allontana dalle mani di chi lavora, la cura del territorio scompare.
Qualcosa di simile è accaduto nel Medioevo, quando le foreste dichiarate “demaniali” dal sovrano non erano più spazi naturali, bensì territori di privilegio: i contadini non potevano cacciare, tagliare legna o pascolare il bestiame senza autorizzazione. Le leggi forestali inglesi, nate per proteggere i cervi del re, sono diventate presto un simbolo di arbitrio. E ancora nel Novecento, in nome dell’interesse collettivo, regimi e burocrazie hanno pianificato, e continuano a farlo, fiumi, laghi e campagne con la pretesa di “razionalizzare” la natura, ottenendo al contrario desertificazione, degrado e miseria.
L’idea che l’ambiente si salvi attraverso la centralizzazione è dunque antica quanto falsa. Ogni volta che si affida a un’autorità esterna la gestione della terra, la responsabilità individuale si dissolve. Il vero motore della conservazione è la proprietà privata, perché solo chi possiede ha interesse a mantenere, migliorare, tramandare. Le Alpi italiane ne offrono un esempio eloquente: per secoli le vicinie e le comunità montane, basate su diritti di uso collettivo ma fondati sulla responsabilità personale, hanno saputo custodire boschi e pascoli meglio di qualsiasi ente pubblico. E quando nel Novecento la gestione è stata burocratizzata, l’abbandono ha preso il posto della cura.
Ora si ripete lo stesso errore su scala globale. In nome della “Madre Terra” ‒ concetto introdotto per la prima volta nella Costituzione dell’Ecuador nel 2008 ‒ si moltiplicano dichiarazioni solenni, mentre i problemi concreti restano intatti. In Bolivia, dove la “Legge della Natura” è diventata simbolo politico, lo sfruttamento delle miniere e la deforestazione proseguono indisturbati. È la dimostrazione che la deificazione dell’ambiente non salva la natura, serve unicamente a legittimare nuove forme di potere.
In buona sostanza, la vicenda del Vjosa che si commenta mostra con chiarezza questa ambiguità. Dietro il linguaggio della tutela si nasconde una struttura di controllo che regola ogni attività umana: costruzioni, prelievi, estrazioni, perfino il turismo. Tutto dev’essere “autorizzato”, “monitorato”, “certificato”. Si crea così un sistema in cui la libertà economica e la responsabilità individuale vengono sostituite dalla sorveglianza. La natura diventa pretesto per estendere l’amministrazione.
Ma l’ambiente non si protegge con i decreti. Si protegge con la libertà, la conoscenza diffusa, l’iniziativa personale. La storia economica lo conferma: dove il diritto di proprietà è chiaro e sicuro, le risorse sono gestite meglio. Gli studi di Elinor Ostrom, nota per i suoi studi pionieristici sui commons e per essere stata la prima donna a ricevere il Premio Nobel per l’Economia, nel 2009, condiviso con Oliver E. Williamson, sui beni comuni mostrano che le comunità autonome, senza intervento statale, sanno stabilire regole efficaci per l’uso dell’acqua, dei boschi e dei pascoli. È la prova che l’ordine spontaneo ‒ non la pianificazione ‒ garantisce equilibrio e sostenibilità.
Anche il mercato, quando non è ostacolato, è un alleato della tutela. L’innovazione tecnologica, gli investimenti privati, la concorrenza tra imprese hanno ridotto inquinamento e sprechi più di qualsiasi conferenza sul clima. L’energia pulita, il risparmio idrico, la gestione efficiente dei rifiuti nascono da incentivi, non da proibizioni.
Ecco perché il destino del Vjosa non dovrebbe essere consegnato a decreti o organismi sovranazionali, ma alle persone che vivono lungo le sue rive. A chi lo conosce, lo usa, lo ama. Il fiume sarà davvero libero solo se liberi saranno i suoi abitanti: proprietari, non sudditi; custodi, non sorvegliati.
Attribuire diritti alla natura significa, in realtà, togliere diritti a chi ne è parte. È l’ennesima forma di collettivismo mascherata da virtù. La vera sfida del nostro tempo non è dare voce ai fiumi, ma restituirla agli uomini.
Aggiornato il 15 ottobre 2025 alle ore 13:30