
Keir Starmer fa il parafulmine, ma è un prezzo da pagare per essere protagonista della politica internazionale. Quella “reale”, non strillata ai quattro venti, ma che si sviluppa dietro le quinte delle cancellerie dei Paesi amici e nemici. Perché quando ci sono in ballo le sorti di Nazioni e continenti, i veri politici e la vera politica non guarda in faccia a nessuno. Non è stato solo Tony Blair, oggi 72enne, a contribuire alla stesura del piano in 20 punti elaborato da Donald Trump per il futuro della Striscia di Gaza annunciato nei giorni scorsi quasi come “piano per la pace eterna”. A collaborare, infatti, sarebbe stato anche il governo laburista di Keir Starmer, attraverso Jonathan Powell, consigliere per la sicurezza nazionale dell’attuale premier e in passato capo di gabinetto a Downing Street e stretto collaboratore dello stesso Blair. A rivelarlo è il portale online I, nato come costola del The Independent, che cita un report riservato filtrato dal Foreign Office.
Secondo la ricostruzione, dietro la facciata delle polemiche scatenate da Israele e Stati Uniti per il recente riconoscimento all’Onu dello Stato di Palestina, Londra avrebbe agito in modo discreto per trovare una mediazione con Washington e lo Stato ebraico. Powell, in particolare, avrebbe tessuto i contatti con Steve Witkoff, capo negoziatore di Trump, incontrandolo anche a Windsor a margine della seconda visita di Stato compiuta dal presidente Usa nel Regno Unito, il mese scorso. Il contributo britannico, stando alle fonti, sarebbe stato determinante per inserire un riferimento alla prospettiva dei due Stati. Una formula volutamente vaga, accettabile da Benjamin Netanyahu perché priva di vincoli concreti, ma utile per rassicurare gli alleati arabi e permettere a Starmer e ai partner europei di mantenere una posizione di equilibrio. Altro nodo affrontato: il futuro trasferimento di poteri ai palestinesi subordinato all’esclusione di Hamas dalla Striscia e a una profonda “riforma” dell’Autorità nazionale palestinese guidata da Abu Mazen, condizione posta da Israele insieme alla possibilità di esercitare poteri di controllo e veto.
Il regista di questo schema resta Blair, figura divisiva in patria ma tuttora influente negli scenari globali grazie anche alle relazioni consolidate con Jared Kushner, genero di Trump e uomo-chiave nei rapporti con le monarchie del Golfo. Un intreccio che agli occhi di Riad, Doha e Abu Dhabi costituisce un elemento di garanzia. Si capisce meglio ora l’inerzia imputata al governo laburista di Keir Starmer nelle ultime settimane, quando a Westminster aveva respinto la possibilità di offrire protezione agli attivisti della Global Sumud Flotilla, tra cui figuravano cittadini britannici. Una posizione che ha suscitato le critiche di Jeremy Corbyn e della deputata Zarah Sultana, fuoriusciti dal Labour e oggi promotori di una nuova formazione “socialista e pacifista” il cui congresso fondativo si terrà a breve.
“Israele – ha deplorato sui social Corbyn – ha intercettato illegalmente la Sumud Global Flotilla. È stata un’aggressione vergognosa, in flagrante violazione del diritto internazionale, che rappresenta un affronto alla nostra comune dignità umana e un’ulteriore offesa contro il popolo palestinese già affamato a morte da Israele”. L’ex leader laburista accusa Downing Street di aver ignorato gli appelli a intervenire: “Molti di noi avevano avvertito che sarebbe accaduto, ma il nostro governo ancora una volta ha ignorato gli appelli ad agire con urgenza”, scrive Corbyn, invocando sanzioni generali contro Israele e contro il governo Netanyahu. “La storia – conclude – sarà dalla parte della Flotilla, il cui coraggio mobiliterà solo più persone a unirsi al nostro movimento globale per la Palestina”. Ma se l’Inghilterra ha fatto orecchie da mercante verso gli attivisti, il motivo appare chiaro.
Aggiornato il 02 ottobre 2025 alle ore 18:04