
Qual è l’interesse vitale di qualunque palestinese in fuga dalle macerie e dal disastro umanitario di Gaza? Non certo il riconoscimento simbolico da parte della diplomazia internazionale onusiana (che alloggia in hotel di lusso newyorkesi) di uno “Stato palestinese”, che lui stesso e i suoi figli rischiano di non vedere mai. A fronte dell’iniziativa Emmanuel Macron e di Mohammad Bin Salman, la reazione dei gazawi appare improntata al più grande scetticismo, in assenza di impegni concreti da parte della comunità internazionale. Oggi, infatti, oltre alla fame, la prima preoccupazione di un palestinese di Gaza è trovare non meno di 5mila dollari per alloggiare i suoi figli in una tenda, sistemandola poi in qualche punto della Striscia (come il campo di raccolta di Deir al-Balah), al riparo dalla guerra e dai bombardamenti, sperando così di restare in vita nel prossimo futuro. Più in generale, i profughi di Gaza City vivono questo tardivo riconoscimento come una presa in giro, rispetto a una Palestina in via di estinzione, dove proprio nessuno dei leader arabo-occidentali, protettori dell’ultima ora, rischierebbe un solo soldato sul terreno, per creare una linea di separazione “fisica” tra la popolazione assediata e l’Idf. Ed è proprio il carismatico leader storico palestinese, Mustafà Barghouti (ancora vivo perché detenuto in una prigione israeliana) a dire chiaro e tondo le cose come stanno: “La soluzione dei Due Stati serve solo come foglia di fico a dissimulare la realtà: quella di un solo Stato (d’Israele) con un regime di Apartheid”, facendo forse intendere che lui stesso potrebbe essere il prossimo Nelson Mandela della situazione.
Del resto, una semplice presa d’atto dei fatti sul terreno dimostra che l’attuazione della Risoluzione Onu 181/47 oggi è impossibile e del tutto impraticabile, vista la dinamica decennale dell’espansione a macchia di leopardo delle colonie ebraiche, simili a zone franche e impenetrabili in cui rischia di essere fagocitata la stessa Autorità palestinese. Ed è storicamente vero che la deriva lenta dell’occupazione di territorio cisgiordano palestinese (esclusi in grandi centri urbani, totalmente controllati dell’Autorità) prosegue indisturbata già da molti anni, e sotto la protezione dell’esercito israeliano. Ma, in buona sostanza, oltre alle condanne formali e verbali, quale nazione, soprattutto araba, potrebbe mai entrare in guerra con Israele per la restituzione dei territori occupati? In merito all’attuale riconoscimento dello Stato palestinese da parte di Parigi, c’è qualcuno, come Samer Sinjilawi, un oppositore di Mahmud Abbas, che dichiara al quotidiano francese Le Figaro: “Emmanuel Macron ha assunto questa decisione tenendo conto della spinta della sua opinione pubblica, ma non di quella palestinese. Si è accontentato di un gesto simbolico, mentre invece avrebbe dovuto sollecitare una riforma in profondità dell’Autorità palestinese, chiedendo nuove elezioni questo tardivo riconoscimento si tradurrà, come ha promesso l’attuale Governo israeliano, in un’ulteriore occupazione delle nostre terre”. Elezioni in Cisgiordania che, però tutti i sondaggi dicono le vincerebbe sempre Hamas, rendendo la situazione ancor più esplosiva in quel martoriato territorio, come se non bastasse l’attuale disastro umanitario di Gaza.
Non pochi osservatori si chiedono quali saranno nell’immediato futuro le ricadute interne dell’iniziativa dell’Eliseo sulla Palestina, dato che in un Paese profondamente diviso e ostile al Presidente, com’è la Francia di oggi, il riconoscimento potrebbe essere rivendicato come una vittoria collettiva della sinistra francese e sfruttata (quel che è peggio) politicamente da Hamas, senza che mai che il gruppo terrorista soddisfi la premessa della liberazione degli ostaggi israeliani. Perché dal 7 ottobre 2023 è stato chiarissimo a tutti che la fine della guerra (scatenata da Hamas) aveva i seguenti presupposti, sempre a norma del sempre più disatteso diritto internazionale. La liberazione degli ostaggi israeliani, in primo luogo, seguita subito dopo dalla resa e dall’esilio volontario di Hamas e, successivamente, da libere elezioni garantite da un’Autorità arabo-occidentale di transizione. Da lì, a seguito dell’individuazione della legittima rappresentanza del popolo palestinese, spetta poi alle parti e alle Nazioni membri dell’Autorità di transizione provvedere al reciproco riconoscimento tra Israele e Palestina e gli stessi Stati partecipanti, con un mutuo accordo per la sicurezza alle frontiere interne ed esterne, in cui la forza palestinese armata avrebbe compiti esclusivi di polizia, rinunciando agli armamenti pesanti.
Sarà forse una provocazione involontaria, ma l’iniziativa diplomatica di Macron è stata formalizzata proprio il 22 settembre, giorno della festa ebraica Roch Achana, con le inevitabili code polemiche sull’antisemitismo in Francia! Ma lo stesso Macron, dopo il 7 ottobre, aveva assunto comportamenti alternanti, passando dalla proposta di una coalizione occidentale anti-Hamas (analoga a quella contro l’Isis che, però predicava la Jihad globale, mentre i fondamentalisti palestinesi si identificano come un movimento nazionalista della Fratellanza musulmana), per attestarsi poi a una politica nettamente anti-israeliana dell’Eliseo, con il progredire delle operazioni a Gaza. E oggi, si chiede di dare esecuzione al riconoscimento diplomatico della Palestina proprio al Governo di Sébastien Lécornu, privo di una maggioranza all’Assemblèe. Iniziativa quest’ultima che, con ogni probabilità, non potrà essere annoverata come “gestione per gli affari correnti” da parte di un Governo dimissionario, mancando oltretutto i relativi requisiti di urgenza.
Dal punto di vista generale, non è del tutto vero profetizzare che il futuro di Israele sarà costellato dall’odio imperituro e implacabile delle future generazioni di giovani palestinesi, rimasti orfani o che hanno visto le loro famiglie distrutte e condannate a una seconda Nakba, dopo quella del 1948. È possibile, cioè, che tutto ciò non accada, a condizione che siano l’Europa e i Paesi arabi a condurre in porto le fasi di resettlement e contro-resettlement, ospitando temporaneamente per quote nazionali gli attuali profughi palestinesi, per farli poi rientrare tempestivamente nella loro terra, una volta riedificata Gaza. Non è con fantomatici resort che si costruirà la riconciliazione tra i due popoli ma, verosimilmente, grazie alla contaminazione di milioni di gazawi con le pratiche e la consuetudine dei processi democratici nei Paesi europei, che accetteranno di ospitarli per tutto il tempo che si renderà necessario. Hic Rhodus, hic salta. Altro che flottiglia!
Aggiornato il 30 settembre 2025 alle ore 09:33