
Che aria tira sulle navi della flottiglia? Sarebbe da chiederlo a Saif Ayadi, attivista queer e “comunista” – come si legge nella sua bio di Instagram – che si è imbarcato sulla Global Sumud Flotilla per manifestare a favore dei palestinesi e portare un po’ di aiuti nella Striscia di Gaza. Fin qui tutto bene, no? Agli occhi di un “occidentale”, che sia conservatore, liberale, progressista, di destra, di sinistra, binario, non binario, cristiano, agnostico o ateo, non ci sarebbe nessuna stortura logica nella mission del militante. È comunista e fa il comunista. Perché chi sposa i valori occidentali – i valori delle liberal democrazie, tramandati da centinaia di anni e, sebbene mutati col tempo, rimasti fondamento della nostra storia comune – sa che prima di essere etichettato in un qualsiasi contenitore, è un individuo libero. Può dare fastidio, ma è libero di essere un attivista queer e di imbarcarsi in una spedizione di yacht verso la Terra santa.
Il problema è che Saif Ayadi si trova dove non è gradito. Perché sulle navi della flottiglia ci sono diversi coordinatori, di fede islamica integralista, che di attivisti queer non ne vogliono proprio sentire parlare. Primo fra tutti Khaled Boujemâa, connazionale di Ayadi, che ha abbandonato la missione in segno di protesta. Non è concepibile per alcuni che un rappresentante della comunità Lgbtqia+ – letteralmente perseguitata in teocrazie e Paesi islamici – stia navigando verso Gerusalemme. Non c’è alcun contenitore mentale per Boujemâa dove Islam e Lgbt vadano d’accordo. C’è un’incomunicabilità strutturale. “Ci hanno mentito sull’identità di alcuni dei partecipanti in prima linea nella flottiglia, accuso gli organizzatori di avercelo nascosto”, ha detto il coordinatore a Wael Navar, uno dei capi della spedizione, anch’esso di fede islamica.
Un’altra connazionale di Ayadi, Mariem Meftah, si è pronunciata contro la convergenza d’intenti tra attivismo “woke” e pro-Pal. “L’orientamento sessuale di ognuno è una questione privata. Ma essere un’attivista queer significa toccare i valori della società e intraprendere una strada che rischia di mettere i miei figli e i miei cari in una situazione che rifiutiamo”, ha dichiarato la donna. “Mi rifiuto di permettere che a mio figlio venga offerto un cambio di sesso a scuola. Non perdonerò chi ci ha messo in questa situazione. Dovremo parlarne perché ad alcuni piace oltrepassare una linea rossa o l’hanno già oltrepassata. Invito tutti a salvare la situazione e a riparare il torto fatto alle persone che hanno donato il loro sangue, affinché questa flottiglia possa vedere la luce del sole”, ha concluso.
E anche il fatto che l’orientamento sessuale e il gender di alcuni manifestanti sia stato tenuto nascosto ai coordinatori più tranchant, dice molto sulla questione. E sull’incomunicabilità dei due mondi. La posizione degli integralisti islamici è semplice e perentoria: la causa palestinese è una causa religiosa e culturale. La battaglia dei musulmani “non può essere separata dalla sua dimensione spirituale e religiosa: Gerusalemme è quindi al centro dei suoi simboli e del suo destino”, ha riassunto con tremenda chiarezza il presentatore televisivo tunisino Samir El Wafi.
D’altronde, questa sindrome da crocerossina è tipica dei Paesi occidentali. Basterebbe aprire un libro di storia. Prima si provarono a salvare gli infedeli, poi si provarono a salvare “le masse”, e infine gli indigeni di tutto il mondo. E di solito, è andata a finire malissimo.
Aggiornato il 23 settembre 2025 alle ore 14:33