Exit America: Stars & Stripes addio

Che cosa sta accadendo al grande mito americano? Soprattutto: che cosa ne è di quel suo simbolo e marchio più esclusivo, rappresentato dalla bandiera degli Stati Uniti federati d’America? Quale senso hanno oggi quelle stelle che indicano il numero degli Stati federati e le (tredici) strisce, che ricordano storicamente le colonie al tempo della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e della Costituzione del 1788 (mai cambiata nei secoli: un record assoluto!), liberate dalla dominazione inglese? L’ultimo colpo alla sua antica democrazia ultrabicentenaria, stando a troppi commenti decisamente fuorvianti, lo avrebbe assestato il recente assassinio di uno dei più famosi opinion-maker trumpiani, Charlie Kirk, ucciso a soli trentuno anni da un colpo di fucile, esploso (alla John Fitzgerald Kennedy) a distanza di un paio di centinaia di metri. Quel Kirk, fondatore dell’associazione Turning Point, al quale J. D. Vance ammette di dover la sua nomina a vicepresidente. Kirk, che muore incredibilmente assassinato proprio perché, proteggendosi sotto lo stendardo di Stars & Stripes (“S&S”), invitava amici, nemici, agnostici, quindi proprio tutti gli americani ad appropriarsi e partecipare a quel suo prezioso, insostituibile spazio dialettico “Prove me wrong!”: dimostrami che ho torto, chiunque tu sia. Un inno immortale, come si vede, alla libertà di pensiero, che fa il paio solenne con “Right or Wrong, It’s my Country”: “Giusto o sbagliato, questo è il mio Paese!”. Di recente, sul Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia (Gdl) ha operato una disamina dell’attuale situazione negli Stati Uniti, piagati dalla violenza civile e politica, chiamando l’attuale democrazia americana un “vuoto involucro”. L’America, cioè, non è più una “Nation under God”, nata e voluta sotto un forte impulso ideologico, oggi scomparso secondo Gdl, lasciando il passo a insanabili conflitti tra fazioni, le quali non si riconoscono reciprocamente in alcun interesse superiore comune.

Se è così, e così è per puro accertamento dello stato dei fatti, tuttavia occorre ulteriormente approfondire le cause che lo hanno determinato, accennate da Gdl. Tra gli aspetti di fondamentale importanza che restano da chiarire, uno sopra tutti riveste un’importanza primaria, e si può sintetizzare con la seguente, provocatoria domanda: “Di Chi è la colpa?”. Non saranno mai gli affari di un pugno di straricchi trilionari digitali e finanziari a poter fare grande l’America di oggi, se viene a mancare in 350 milioni di cittadini l’amore per la nazione creata con la Costituzione del 1788. E quest’ultima si identifica proprio con la bandiera S&S, piantata in ogni giardino domestico che si rispetti, e non importa quale lingua, religione, etnia contraddistinguano gli abitanti della casa stessa. Su tutto questo benessere primario delle origini, da tempo si è abbattuto, portando totale devastazione (e morte, come si vede) “Il Big One” dei social network. Ed è questo agente infestante ad aver instillato in miliardi di utenti e profili social, in America e nel mondo, il potente veleno woke di una civiltà irenista, senza frontiere e identità nazionali, multiculturale, multietnica e multilaterale, governata esclusivamente dai famosi “diritti”. Una nuova ideologia totalitaria e aberrante, che è ormai penetrata in tutte le arterie del sistema venoso multimediale e culturale della società civile globale occidentale, con la diffusione quotidiana di miliardi di post (come quelli delle comunità Pro-Pal) che parlano di odio per l’Occidente e l’America. E questo è accaduto oggettivamente perché all’idea di assoluta, vera libertà della Internet dei primi anni Novanta si è sostituito il monopolio dei triliardari della Silicon Valley che, per decenni, hanno favorito e finanziato con centinaia di miliardi di dollari (scaricandoli dalle tasse!) l’ideologia woke. Federico Rampini docet.

Tale dittatura è stata poi perfezionata e pianificata organizzando una censura capillare e planetaria, rispetto a chiunque osasse violare i prefissati canoni mainstream, bandendo come hate speech qualunque opinione antigender, o sospetta di suprematismo, o che comunque fosse portatrice di critiche alla sacralità dell’imperativo etico-culturale della multietnicità, del relativismo multiculturale e del multilateralismo terzomondista onusiano. L’anatema ha colpito altresì chiunque osasse desolidarizzare con la pretesa di sempre più diritti speciali alle categorie superprotette degli Lgbtq+ e addentellati vari. Nessuno che in tanti anni abbia mai osato denunciare questi lussi ideologici, del tutto superflui, dato che bastavano e avanzavano le norme generali di tutela dei diritti della persona, della sua libertà di espressione, della sua sicurezza, che in ogni Stato democratico valgono per tutti i cittadini. Invece, i principi del woke e della cancel culture sono stati monopolizzati dalla parte più ricca e colta dell’America, conquistando i feudi mediatici e d’opinione della massima importanza e risonanza nazionale e mondiale, all’interno sia delle (costosissime) università americane più prestigiose, come dei grandi media nazionali e internazionali. E sono stati proprio questi ultimi i protagonisti incontrastati da decenni, che hanno messo all’indice e letteralmente perseguitato con campagne di diffamazione e di condanna, senza giudizio né preventivo né successivo delle corti togate, le posizioni di intellettuali, politici, professori e semplici cittadini, ritenute tout court non conformi al mainstream e all’ideologia totalitaria del politically correct.

Così, un cittadino sempre più inquieto per la sua sicurezza assiste, da una parte, al dilagare dell’inquinamento ideologico “in dubio, pro-reo”, con giudici che impongono il trattenimento dei migranti espulsi, o rimettono in libertà delinquenti pluripregiudicati. Dall’altra, sindaci democratici americani che dichiarano “santuari” le loro grandi città, impedendo alle Autorità anti-immigrazione di procedere alle espulsioni degli irregolari, aprendo così le porte all’immigrazione illegale di massa a spese del contribuente. Quegli stessi sindaci e amministratori locali (eletti!), che lasciano homeless e drogati di ogni tipo ridurre a cumuli di spazzatura e di infezione interi quartieri urbani, con le immense periferie dei quartieri poveri e popolari in mano alla violenza, al crimine organizzato e all’insicurezza. Per di più, le scuole pubbliche americane, ormai di pessima qualità e disertate dai figli della middle class, sono infestate dall’ideologia woke e transgender, dove non si impara più un bel nulla, e tutti vengono promossi senza merito, soprattutto se appartenenti alle minoranze etniche o a quelle sociali svantaggiate (vedi Rampini).

Oggi, miliardi di persone nel mondo si rifugiano all’interno del guscio duro e inespugnabile dei propri profili social, che ne esaltano la propensione disastrosamente iper-egotica e iper-narcisistica, confinandoli tutti senza eccezione nel rispettivo particulare solipsistico e nichilista. Così si è scatenato in superficie con tutta la sua forza devastante e dirompente il Big One digitale, facendo esplodere la coesione socio-politica, in America e in molte parti del mondo in cui le opinioni pubbliche contano ancora qualcosa. E sono gli stessi utenti, in questa tossicodipendenza digitale, a riciclare a ciclo chiuso e ininterrotto, nei riti quotidiani dei social, veleni mediatici, fake news, odi e passioni viscerali di ogni tipo. Quale bandiera comune possono più avere tutti costoro? Perché ci si meraviglia, poi, se le condotte vanno sempre più alla deriva verso una guerra civile latente e permanente? Se l’Altro non è anche parte integrante di Te, come continuano a predicare le religioni della cooperazione e dell’amore, quale speranza rimane al mondo diviso e confliggente? Cina e Russia, come le autocrazie in generale, hanno capito il problema molto meglio dell’Occidente, mettendo de iure lo strumento social al servizio dell’ideologia e della propaganda nazionalista.

Ma, ancora una volta, perché la politica ha perduto la sua missione lungo la strada? Forse, il motivo banale consiste nel fatto che non ha la capacità e la forza, che appartiene oggi ai veri padroni del mondo della Silicon Valley e di TikTok, di analizzare i Big Data di miliardi di messaggi multimediali quotidiani, facendo emergere la verità statistica di una vera e propria dittatura del politically correct. La soluzione? Trovare il modo di sottomettere alla politica democratica il controllo dei padroni della Algosfera e delle Borse, che nessuno oggi è in grado di contrastare, in modo da sottoporre a una severa verifica i potenti algoritmi social e dell’Ai. Sennò, cosa?

Aggiornato il 18 settembre 2025 alle ore 10:13