
La Russia di oggi sembra impegnata in un esercizio tragicomico: riproporre Iosif Stalin come modello di riferimento e confezionare il tutto in un’operazione ideologica che più che guardare al futuro, annaspa nel passato. Al centro di questo teatrino troviamo Sergey Karaganov, accademico e consigliere del Cremlino, uno di quei personaggi che da decenni sopravvivono a ogni cambio di stagione politica grazie a un talento speciale: fornire sempre la giustificazione teorica perfetta per il potere di turno. È il classico intellettuale “di servizio”, pronto a trasformare in dottrina qualsiasi capriccio del Cremlino. Quando serve giustificare una guerra, elabora teorie geopolitiche sul destino imperiale della Russia; quando serve un collante interno, tira fuori un “Codice del russo”, spacciandolo per alta filosofia. In realtà, più che un codice sembra un bignami di propaganda: patriottismo obbligatorio, valori tradizionali a uso e consumo della retorica ufficiale, fedeltà cieca allo Stato e, naturalmente, la missione speciale della Russia nel mondo, che non può mai mancare. Dentro questa cornice, la riabilitazione di Iosif Stalin diventa la punta di diamante. Statue inaugurate con fanfare, busti piazzati accanto a Lenin e Karl Marx, strade ribattezzate come se bastasse cambiare una targa per rimuovere decenni di terrore.
Tutto raccontato con la solita favoletta della “spontanea richiesta popolare”, come se i cittadini russi, oberati da inflazione e guerra, non desiderassero altro che nuove statue di un dittatore responsabile di milioni di morti. È un’operazione che rasenta il grottesco: riportare Stalin nello spazio pubblico non come monito, ma come modello, quasi fosse un vecchio eroe da rispolverare per dare un senso al presente. La narrativa che accompagna questo revival è altrettanto prevedibile. All’esterno, l’Occidente rimane il nemico da cui difendersi. All’interno, ogni voce critica è un traditore da zittire, bollato come “quinta colonna”. È un copione già scritto, che non ha bisogno di grandi sceneggiatori: basta agitare la paura del nemico e ridurre il dissenso a complotto, e il gioco è fatto. Karaganov, da parte sua, offre le categorie “raffinate” per trasformare questa caccia alle streghe in un discorso apparentemente colto, fatto di “sovranità spirituale” e “identità nazionale”. È il travestimento teorico di una repressione che resta, in sostanza, brutale e rozza. E mentre il Paese si adatta a questa atmosfera da revival sovietico, il “Codice” trova la sua strada nelle scuole e nelle università.
Qui si prepara la nuova generazione a venerare non la libertà o il pensiero critico, ma la memoria di un passato fatto di disciplina, sacrificio e obbedienza. È come spacciare un vecchio manuale sovietico per un programma educativo innovativo: cambia la copertina, ma il contenuto è lo stesso, con Stalin e Putin che fanno da testimonial a un’epopea che esiste solo nella propaganda. Alla fine, questa cosiddetta rinascita ideologica appare per quello che è: un copione riciclato, con Karaganov nella parte del teorico zelante e Putin in quella del protagonista carismatico. È un’operazione che vorrebbe essere epica ma riesce solo a risultare farsesca. Il Cremlino cerca di rivendere un passato che la storia ha già condannato, camuffandolo da progetto di modernità. Ma dietro i toni solenni e le statue nuove di zecca resta l’immagine di un potere che, per sopravvivere, non trova di meglio che aggrapparsi ai fantasmi di un dittatore e trasformare un intero Paese in spettatore forzato di una parodia ideologica. Dall’altra parte, in Occidente, questa operazione di resurrezione staliniana viene seguita con un misto di sarcasmo e sgomento. I giornali internazionali si divertono a sottolineare l’assurdità di un Paese che pretende di proiettarsi nel futuro rispolverando statue di un dittatore, quasi fosse un nuovo arredo urbano pensato per “dare carattere” alle piazze.
Analisti e commentatori parlano di “cosplay sovietico” per descrivere cerimonie in pompa magna che ricordano più una rievocazione storica mal riuscita che un atto di vera politica. Ma dietro le risate amare c’è anche una forte preoccupazione: se a Mosca si recupera Stalin come simbolo positivo, non è solo un vezzo da nostalgici, bensì un messaggio chiaro sull’accettazione — anzi, sull’esaltazione — della violenza come strumento politico. E questo, visto dall’Occidente, significa trovarsi di fronte a un regime che non si limita a rievocare il passato, ma lo vuole riattivare per giustificare guerre, repressioni e isolamento dal mondo. In altre parole, ciò che a prima vista può sembrare una farsa ideologica, osservata da Washington, Bruxelles o Berlino diventa un campanello d’allarme: quando un Paese ridefinisce la propria identità glorificando un dittatore, non c’è solo da sorridere, ma anche da prepararsi al peggio.
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
Aggiornato il 17 settembre 2025 alle ore 09:52