Negli ultimi anni, e soprattutto dall’inizio dell’invasione russa su larga scala, la Chiesa ortodossa ucraina legata al Patriarcato di Mosca è diventata una presenza sempre più controversa. Un tempo vista come custode di fede e tradizione, oggi molti ucraini la percepiscono come un corpo estraneo, sospettato di essere al servizio del Cremlino. E non si tratta solo di voci popolari: documenti giudiziari e indagini della Sicurezza ucraina (Sbu) hanno portato alla luce decine di casi di sacerdoti accusati di spionaggio, collaborazionismo e giustificazione dell’aggressione russa. Nei villaggi di frontiera il clima è palpabile. A Sumy, di fronte alla piccola chiesa dove officiava l’arciprete (proto-iereo) Mykola Zakroiets, i fedeli si fermano ancora a parlare sottovoce. “Non volevamo crederci quando lo hanno arrestato”, racconta Olena, 62 anni, parrocchiana da sempre. “Per noi era un pastore, un uomo di Dio. Poi abbiamo sentito che passava informazioni all’Fsb... ci è caduto il mondo addosso. Pregavamo con lui, e intanto lui tradiva il Paese”. Zakroiets, condannato a quindici anni per tradimento, è stato poi scambiato con la Russia. “Ha detto che lo faceva per convinzione, non per soldi”, aggiunge un vicino. “Ma che convinzione è quella che ti porta a benedire chi bombarda la tua terra?”.

A Zaporizhzhia, la notizia dell’arresto del proto-iereo Kostiantyn Kolodka ha provocato reazioni miste. “Era severo, molto ligio alla liturgia”, ricorda Dmytro, un giovane di 28 anni che frequentava la parrocchia. “Ma col tempo il suo discorso si faceva sempre più politico: parlava di un mondo russo, di come Mosca fosse la vera guida spirituale. Quando abbiamo saputo che aveva un passaporto russo e armi in casa… beh, non è stato uno shock totale”. Secondo la Sbu, Kolodka non solo giustificava l’invasione ma reclutava cittadini per conto dei servizi russi. La guerra ha mostrato quanto la religione possa trasformarsi in una copertura. A Lysychansk, nella regione di Luhansk, il caso dell’arciprete Andriy Pavlenko ha lasciato un segno profondo. “Mio marito era tra quelli che aiutavano i soldati ucraini portando cibo e medicine”, racconta Iryna, 44 anni. “Pavlenko gli chiedeva spesso dei dettagli: chi vedeva, dove andava, con chi parlava. Noi pensavamo fosse interesse pastorale. Poi lo hanno arrestato e abbiamo capito: quelle informazioni finivano dritte ai russi”. Pavlenko, condannato a dodici anni per collaborazione, è stato anch’egli scambiato. In Russia ha continuato a presentarsi come vittima del “regime di Kyiv”, raccogliendo donazioni per l’esercito occupante. Non sono mancati episodi in cui la propaganda è entrata direttamente nei luoghi di culto.

Durante l’occupazione di Izium, l’archimandrita Mykhailo Pymashin celebrava funzioni in cui ringraziava le truppe russe e le benediceva pubblicamente. “Ricordo che quel giorno non riuscivo a trattenere le lacrime”, racconta Hanna, 70 anni, che ha assistito a una di quelle liturgie. “Ero entrata per pregare per mio figlio al fronte, e invece ho sentito il sacerdote dire che la Russia ci portava pace. Mi sono alzata e sono uscita. Non ci sono più tornata”. Anche ai vertici della gerarchia emergono figure compromesse. Il metropolita Ionafan (Anatoliy Yeletskiy), condannato per aver diffuso opuscoli e materiali in cui si affermava che “il Donbas è Russia”, è stato successivamente scambiato e vive ora in Russia, dove appare regolarmente in trasmissioni televisive a difendere la “missione spirituale” dell’esercito di Putin. Per molti fedeli ucraini, questi episodi hanno distrutto un rapporto di fiducia. “Non sappiamo più a chi credere”, spiega Viktoria, giovane madre di Kharkiv. “Nella mia famiglia mio padre vuole continuare ad andare nella chiesa del Patriarcato di Mosca, dice che la fede è la fede. Io invece non ci vado più: non posso pregare sotto lo stesso tetto di chi benedice i soldati che bombardano la mia città”.

Dal lato delle autorità, la posizione è netta. “Non perseguiamo la fede, perseguiamo i crimini,” ha dichiarato un portavoce della Sbu. “Chi collabora con i servizi segreti russi, chi giustifica l’aggressione armata, non è protetto da una tonaca. La religione non è un lasciapassare per il tradimento”. Limitare la presenza della Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca, sottolineano le istituzioni, non equivale a una restrizione delle libertà religiose, ma rappresenta una misura di tutela della sicurezza nazionale: questa struttura ha dato ampia prova di essere non solo permeabile, ma complice dell’attività dell’Fsb. Oggi, in molte comunità, i fedeli stessi sollecitano un passaggio al Patriarcato di Kyiv, indipendente da Mosca. Le richieste arrivano dal basso: assemblee parrocchiali, raccolte di firme, persino manifestazioni pubbliche davanti alle chiese. In diverse regioni, interi villaggi hanno votato per cambiare giurisdizione, vedendo nell’autocefalia una garanzia di lealtà nazionale oltre che di identità spirituale.

Non sempre il processo è pacifico: ci sono resistenze da parte di sacerdoti legati a Mosca e famiglie che si dividono, ma il movimento appare in crescita e riflette un desiderio diffuso di separare la fede dall’influenza del Cremlino. Così, tra accuse, processi e scambi di prigionieri, emerge una domanda più grande: fino a che punto la religione può restare “pura” in un tempo di guerra totale? Le testimonianze raccolte nei villaggi e nelle città mostrano che la ferita non è solo giudiziaria o politica, ma profondamente umana. Perché quando un sacerdote tradisce, non tradisce solo lo Stato: tradisce anche le mani che si tendevano verso di lui per ricevere una benedizione, tradisce la comunità che vedeva in lui un padre, e tradisce la fede che dovrebbe unire, non dividere.

(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza

Aggiornato il 12 settembre 2025 alle ore 10:12