Il doppio gioco di Tbilisi

Dopo l’invasione dell’Ucraina, l’Occidente ha alzato una muraglia di sanzioni contro Mosca, colpendo petrolio, finanza e beni di consumo. Anche il settore automobilistico è finito nel mirino: prima il divieto sulle auto di lusso, poi l’embargo sui veicoli nuovi e usati con motori sopra i 1,9 litri, fino a includere ibride ed elettriche. Sulla carta un colpo secco alle abitudini di consumo della classe media e al lusso ostentato delle élite russe. Eppure, nonostante i divieti, la Russia continua a ricevere un flusso costante di veicoli. Il segreto sta nelle pieghe della geografia e nelle ambiguità della politica: la Georgia si è trasformata, quasi silenziosamente, in un hub fondamentale di re-esportazioni. I numeri sono eloquenti. Nei primi sei mesi del 2025 Tbilisi ha registrato un record di re-esportazioni di veicoli leggeri pari a 1,2 miliardi di dollari, con un aumento del 493 per cento rispetto al 2021. Ufficialmente, a importare queste auto sarebbero soprattutto Kazakistan e Kirghizistan, che da soli assorbono l’81 per cento del traffico. Ma le discrepanze tra i dati georgiani e quelli dei Paesi destinatari raccontano un’altra verità: una parte consistente dei veicoli finisce sul mercato russo, approfittando degli accordi doganali dell’Unione economica eurasiatica che consentono di attraversare le frontiere senza particolari ostacoli. Per capire come funziona basta recarsi a Rustavi, venti chilometri a sud di Tbilisi, dove un enorme piazzale polveroso ospita uno dei mercati automobilistici più attivi del Caucaso.

File ordinate di Suv, berline e fuoristrada brillano al sole, accanto a utilitarie di seconda mano e furgoni commerciali. Tra le auto si muovono gruppetti di uomini che parlano russo fitto, mentre alcuni giovani rivenditori georgiani traducono e contrattano. Un intermediario con passaporto kirghiso osserva una Lexus nera e prende appunti su un taccuino. “Questa andrà a Bishkek”, dice a bassa voce, ma poi sorride aggiungendo: “O magari un po’ più in là, vedremo”. Attorno, i commercianti locali non si sorprendono: sanno bene che molte delle auto esposte qui hanno già come destinazione finale la Russia, anche se i documenti raccontano un’altra storia. Il valore medio dei veicoli esportati è salito dai 7.600 dollari del 2021 a oltre 24mila nel 2025. Un salto che riflette la trasformazione del mercato: non più semplici utilitarie giapponesi di seconda mano, ma Suv tedeschi, crossover coreani e berline di lusso. L’afflusso di compratori dall’Asia centrale e di mediatori russofoni ha reso Rustavi una sorta di fiera permanente, dove ogni settimana si concludono centinaia di affari. Un rivenditore racconta che i modelli più richiesti sono Toyota Land Cruiser e Mercedes Classe G: “In Russia vanno a ruba, soprattutto tra chi vuole mostrare che le sanzioni non lo toccano”.

Per la Georgia il fenomeno è diventato una manna economica. L’export di auto rappresenta ormai più di un terzo delle esportazioni complessive del Paese, alimentando profitti non solo per i rivenditori ma anche per spedizionieri, doganieri, portuali, officine di riparazione e società di logistica. Un sistema che genera ricchezza diffusa e che, in un Paese con un’economia fragile, assume un peso enorme. Eppure, dietro il successo commerciale si nasconde una contraddizione politica sempre più evidente. Il governo georgiano dichiara di rispettare le sanzioni e nel 2023 ha introdotto un divieto formale di re-esportazione diretta verso Russia e Bielorussia. Ma i flussi attraverso Paesi terzi, come Kazakistan e Kirghizistan, sono difficili da tracciare e ancor più da controllare. Di fatto, Tbilisi tollera un commercio che consente a Mosca di aggirare le restrizioni, chiudendo un occhio su pratiche che, pur non violando formalmente le regole, ne minano lo spirito. Il rischio è duplice. Sul piano economico, l’intero modello dipende da una rete fragile: basterebbe un irrigidimento delle regole da parte di Bruxelles, Washington o degli stessi Paesi dell’Asia centrale per interrompere il flusso e colpire duramente un settore ormai vitale.

Sul piano politico, la discrepanza tra dichiarazioni ufficiali e realtà dei fatti indebolisce la credibilità della Georgia come Paese candidato a un’integrazione euro-atlantica, alimentando i sospetti di un doppio gioco. Rustavi, con i suoi piazzali pieni di auto pronte a partire, diventa così il simbolo di un equilibrio instabile. Ogni Suv che lascia il mercato diretto verso est racconta la storia di un Paese sospeso tra due identità: da una parte la voglia di presentarsi come partner affidabile dell’Occidente, dall’altra la convenienza immediata di un commercio che ingrassa le casse nazionali ma rafforza, indirettamente, la resilienza economica della Russia. La Georgia si trova davanti a una scelta che prima o poi non potrà più rimandare: continuare a vivere nella zona grigia di un commercio che fiorisce sull’ambiguità, oppure affrontare la sfida di un allineamento pieno, trasparente e credibile con i suoi obiettivi geopolitici dichiarati. Ma il quadro non sarebbe completo senza guardare alla cornice politica in cui tutto questo accade.

Dopo le ultime elezioni, segnate da accuse diffuse di brogli e irregolarità a favore del partito Sogno georgiano, la traiettoria del Paese ha mostrato una preoccupante deriva liberticida. Giornalisti indipendenti, oppositori e attivisti della società civile denunciano un clima di crescente repressione, con spazi di libertà sempre più ristretti e un apparato statale che sembra muoversi in direzione opposta rispetto agli standard democratici europei. A ciò si aggiunge la percezione, condivisa da osservatori internazionali e da parte della popolazione, che Tbilisi stia scivolando progressivamente nella sfera d’influenza di Mosca. Le posizioni ambigue sulla guerra in Ucraina, la tolleranza verso i corridoi economici che alimentano indirettamente l’economia russa e il consolidamento di un potere politico accusato di filorussismo delineano un quadro in cui la Georgia, un tempo simbolo delle aspirazioni euro-atlantiche del Caucaso, rischia di tornare a essere considerata un avamposto dell’influenza del Cremlino. È in questo contesto che il boom delle re-esportazioni automobilistiche assume un significato che va oltre i numeri e gli interessi economici: diventa la metafora di un Paese sospeso tra promesse di integrazione con l’Occidente e una realtà che lo vede nuovamente gravitare nell’orbita russa, in un equilibrio sempre più fragile e destinato prima o poi a spezzarsi.

(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza

Aggiornato il 09 settembre 2025 alle ore 10:14