
L’obiettivo è cadere. In piedi, naturalmente. Congedato François Bayrou (quarto premier in 20 mesi, dopo Élisabeth Borne, Gabriel Attal e Michel Barnier, roba da prima repubblica democristiana), Emmanuel Macron cerca un volontario per portarlo fino alle presidenziali di maggio 2027. Non fosse altro per evitare quel problemino collaterale che si chiama non solo Rassemblement national, ma una nuova messe di consensi anche per il Nuovo fronte popolare delle sinistre. Al voto non si torna. Jordan Bardella dovrà aspettare. E anche il “Cln” formato Jean-Luc Mélenchon. Le modalità della navigazione a vista, suggerite dall’Eliseo, prevedono una coalizione con socialisti, macronisti e gollisti, quest’ultimi arrivati divisi al voto di lunedì sera (13 hanno votato contro la fiducia, 9 si sono astenuti), più MoDem e indipendenti vari, per arrivare almeno a una maggioranza di 299-300 seggi, sui 289 necessari. Qualcuno propone la formula della “non sfiducia” o un governo “di scopo” che si occupi degli affari “correnti”.
Anzi, dell’affare corrente, e cioè la legge di bilancio per il 2026 che eviti i malumori di Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale. Il macronista Gabriel Attal (Ensemble) invoca la costruzione di un “accordo di interesse generale” per “scegliere la stabilità” e il “coraggio del compromesso”. Di fronte a “mondo che va avanti” e a una Francia “che non può restare bloccata”, l’ex primo ministro ritiene che “non spetti al popolo francese risolvere i problemi del Parlamento, ma al Parlamento risolvere i suoi problemi e quelli del popolo francese”. Per l’accordo serve un “negoziatore incaricato di riunire le forze politiche”, che “non venga dalla politica attiva e che sappia mettere tutti attorno a un tavolo”. E che soprattutto “venga nominato primo ministro”. Dalle urne non si ripassa, dunque. La dissolution non sarebbe solo quella delle Camere, fanno sapere dall’Eliseo, ma anche del Paese. L’unica scadenza che conta è il 31 dicembre, che è l’ultimo giorno per votare la manovra.
Per i prossimi 18 mesi, rileva Attal, serve una maggioranza che converga “su una tabella di marcia precisa, e che ciascuna delle forze repubblicane possa sostenere”. I socialisti giocano la loro partita. E sperano in una sponda decisiva dei macronisti. Il presidente può fidarsi di noi, dicono. E lo dicono anche a favore di telecamera. Se il Ps entra nel governo “non ci sarà nessun aumento delle tasse per le imprese”, assicura il deputato Philippe Brun, parlando a BFM Business. “Abbiamo un programma piuttosto pro business – ha aggiunto – visto che proponiamo perfino una riduzione dell’imposta sulle società per le Pmi”. Se non è un corteggiamento questo, poco ci manca. il garofano si riposiziona, per tranquillizzare i mercati e convincere il presidente. Il Ps ha già proposto nei giorni scorsi una contro manovra da 21,7 miliardi per il 2026 (era da 44 miliardi il budget presentato Bayrou) con l’obiettivo di riportare il deficit al di sotto del 3 per cento entro il 2032, e non entro il 2029 come programmato dal governo che è caduto lunedì sera. Il progetto socialista mira a ottenere 27 miliardi di euro di entrate fiscali aggiuntive, puntando alle grandi fortune. In questo senso, il Ps propone l’introduzione della tassa Zucman (una tassa minima del 2 per cento sui patrimoni superiori a un miliardo di dollari o a 100 milioni di euro) per finanziare servizi pubblici e rafforzare la giustizia fiscale, la revisione della tassazione dei dividendi e delle plusvalenze (3,8 miliardi di euro), una riconfigurazione delle esenzioni dai contributi previdenziali per le società (2,9 miliardi di euro) e un prelievo previdenziale dell’1 per cento sulle grandi successioni (1 miliardo).
All’indomani della mancata fiducia a Bayrou (364 voti contrari, 194 favorevoli, 15 astensioni) la parola d’ordine, come impone il marketing elettoralistico, è “prontezza”. Tout le monde est pret. Sono pronti i socialisti, che hanno già scaricato i lavoratori per lisciare il pelo alle aziende, e che soprattutto non sono più così sicuri che in caso di governo con un primo ministro macronista, voteranno contro. Sono pronti Les Republicains, anche a porre le condizioni per entrare in un governo di compromesso, che per i gollisti sono sostanzialmente una: non entrare in un esecutivo guidato da un primo ministro socialista. Sono pronti i sinistri di Mélenchon (neanche loro vogliono un premier socialista, specialmente il primo segretario del Ps, Olivier Faure) che da sempre puntano al bersaglio grosso: la destituzione di Emmanuel Macron. E naturalmente sono prontissimi nel Rassemblement national. Marine Le Pen invoca la dissolution non come un’opzione, ma come un “obbligo”. Perché dato per scontato che Macron non si dimetterà (“non tutti possono essere il generale Charles De Gaulle”), che almeno sciolga le Camere e ridia la parola al popolo, nel “rispetto del ruolo di arbitro assegnato al presidente dalla Costituzione, restituendo la rappresentanza parlamentare al popolo, per consentire agli elettori di esprimere la propria scelta senza utilizzare il secondo turno per distorcere la logica elettorale”.
La scelta di Macron potrebbe cadere sull’attuale presidente dell’Assemblée nationale, Yaël Braun-Pivet. Ovviamente, è pronta anche lei. “Se dovessi assumere l’incarico di primo ministro non mi tirerei indietro” ha detto ai microfoni di RTL, precisando però “di non essere affatto una candidata”. Le idee, tuttavia, sembrano chiare: patto di governo “all’insegna della stabilità” con dentro socialisti e Verdi.
Aggiornato il 10 settembre 2025 alle ore 09:49