Sco-rdati: l’Europa cerca casa

Che cosa resta della hubris dell’Europa, e in generale dell’Occidente, dopo il recente vertice dello Sco (Shanghai Cooperation Organisation), che ha visto coalizzate contro di noi le più grandi autocrazie del mondo? Abbiamo una minima idea in merito a che cosa rispondere alla troika Cina-India-Russia (più addentellati e sodali Brics+, del calibro di Iran, Turchia e Corea del Nord) che sfiorano i quattro quinti del mondo? In buona sostanza, il mega vertice cinese di Tanjin e la parata del 3 settembre, ottantesimo anniversario della vittoria della Cina sul Giappone, hanno rappresentato una vera e propria intimazione di sfratto a tutto l’Occidente. Con grande soddisfazione del suo direttore d’orchestra, Xi Jinping, nuovo leader incontrastato del Global South i cui membri, al momento, sono solo uniti per la coda del risentimento comune contro l’egemonia di Usa ed Europa, additate come potenze coloniali e sfruttatrici delle ricchezze altrui. Ma, a ben vedere, i convenuti di Tanjin sono semplicemente dei commensali alla tavola dell’Imperatore Celeste, essendo ben lungi dall’esercitare il ruolo di co-protagonisti per la costruzione di un Nuovo Ordine mondiale, vantato solo a parole. Questo perché è pur sempre lontanissima la prospettiva di un Trattato di cooperazione e di difesa tra di loro, per garantire la sicurezza globale, lo sviluppo economico e la sovranità monetaria, senza i quali presupposti si resta nel campo del beau geste e delle vigorose strette di mano senza grandi conseguenze. Il tutto ruota sulla perdita evidente del primato tecnologico dell’Occidente, a favore della Cina, con cui per otto decenni il Global North ha tenuto soggiogato il resto del mondo. Tutto ciò ha avuto fine a seguito dell’impetuosa crescita dell’high-tech e delle merci cinesi a basso costo, sui mercati mondiali del digitale, tessile e green.

E, che cosa propone con grande furbizia Xi al mondo? Il multilateralismo onusiano e la rimozione di tutti gli ostacoli ai processi di globalizzazione dei mercati, entrambi questi aspetti dominati dall’egemonia economica e politica di Pechino, sia all’interno delle istituzioni internazionali (Onu, Wto) sia nel campo delle nuove tecnologie e del digitale (Ai). Del resto, chi come le democrazie è costretto a vivere sui tempi corti del gradimento umorale dei propri elettorati, che presentano periodicamente il conto alle loro leadership al momento delle elezioni, è del tutto fuori gioco rispetto a chi (le autocrazie) può vantare grande stabilità nel tempo, nonché una totalitaria verticalizzazione delle decisioni, compreso il ricorso autoritario all’uso della forza,  che quindi prevale su di una Unione Europea irenista, pacifista e legata ai principi valoriali dello Stato di diritto e del multilateralismo, oggi del tutto tramontati a seguito delle profonde, insanabili divisioni inter-atlantiche. Al di là della teatralità mostrata a Tanjin, il Global South è profondamente disallineato (e lo resterà per decenni), sia economicamente che politicamente, non avendo nessun meccanismo comune di finanziamento, né un ordinamento collegiale in grado di prendere decisioni per tutti, al fine di sostenerne le immani opere infrastrutturali e di innovazione industriale, assolutamente necessarie per competere con il Grande Nord dell’Occidente e per arginare, in un domani molto prossimo, l’assoluta egemonia del gigante cinese.

Oggi, la Ue paga la sua costituzione ultra-debole, non avendo nemmeno lontanamente un governo, una fiscalità, una difesa e una politica estera comuni, dato che Bruxelles è soltanto una giaculatoria lunga centinaia di km di regolamenti cartacei e che, per volere dei Trattati comuni, le necessarie e urgenti riforme di sistema, nonché di governance, sono paralizzate e impedite dal voto all’unanimità. A questo si aggiunga il disastro di un allargamento a Est dell’Unione, in base alla demagogica convinzione che, dopo il 1991, l’Europa dai Pirenei agli Urali fosse a un solo passo dalla sua piena realizzazione. Così, non essendo stati capaci dal 1954 di definire e accordarci su una difesa comune, abbiamo assecondato i disastri del nostro principale alleato sostenendolo nell’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq, che ha terremotato il Medio Oriente e creato l’Isis. Sembrerebbe quindi inevitabile un ritorno al passato, realizzando finalmente quell’Europa a doppia velocità, costituita da un inner circle di Stati forti (Germania, Francia, Italia, Spagna, Olanda, Benelux e Inghilterra) federati tra di loro, con l’inglese come lingua comune. La lingua, cioè, dell’high-tech e del futuro, praticata correntemente all’estero da cinesi, indiani e da tutti quelli che vogliono interagire direttamente con il resto del mondo. Noi, invece, che cosa facciamo oltre a litigare sui dazi con l’America trumpiana, minacciandola invano di tagliare le unghie all’aggressività e agli immensi profitti dei grandi padroni mondiali del digitale, domiciliati nella Silicon Valley e nella Borsa di Wall Street? Di chi è la colpa, se negli ultimi trenta anni non abbiamo trovato l’accordo per muoverci in tempo sul digitale, promuovendo e finanziando con alcuni triliardi di eurobond una Internet e un’Ai europea, con tanto di sostegno alla ricerca avanzata sui semiconduttori e le tecnologie green, per cui oggi dipendiamo in tutto e per tutto dal monopolista cinese?

E quali sono, a tutt’oggi, i passi concreti per sostenere l’Ucraina e contrastare l’aggressività russa, che ha scelto l’uso della forza per ridisegnare i confini europei? Diciamolo francamente: per fare davvero una difesa e un’industria degli armamenti in comune, bisogna cambiare (radicalmente) i Trattati esistenti e, di conseguenza, servono anni di discussioni e referendum nazionali di approvazione per il varo concorde dei nuovi testi sacri. Sennò, come si intende fare per creare una leva europea e un comando unificato, impossibile da concepire senza un governo unico europeo e un “Capo” vero che rappresenti 500milioni di europei ai tavoli che contano, e avere le “carte” utili per trattare con Vladimir Putin, Donald Trump e Xi Jinping? Perché, diciamolo a chiare lettere, per pesare nella geopolitica mondiale occorre preliminarmente realizzare un’Europa federale, identica a quella di Usa e Russia, con un presidente (unico!) eletto. Cosa che sappiamo bene non accadrà nemmeno tra tre secoli! Purtroppo per Noi, siamo caduti nella trappola della Storia che non perdona i ritardatari: per stare dietro all’economia di guerra di Putin dovremmo convertire buona parte dell’automotive in crisi in industria degli armamenti. Armi da tenere poi chissà per quanto tempo negli hangar e rinnovare periodicamente gli stock per guasti e/o obsolescenza, anche senza guerre in vista. Con la prospettiva di tenere fermi nei garage migliaia di tank, al posto di milioni di macchine a motore endotermico. Non c’è bisogno di attendere i tempi lunghi e individuali dei consumatori privati per cambiarsi la macchina, dato che nel caso dei corazzati fa tutto lo Stato e decide lui (assieme alle lobby) i tempi per il rinnovo periodico degli armamenti. Così Putin estrae valore reale e simbolico da un’Europa sempre più impoverita, costretta a sottrarre ingenti risorse agli impieghi pacifici della società civile.

La domanda è: crediamo veramente all’esistenza di una minaccia russa per l’Europa, quando Putin è impantanato da tre anni in Ucraina, contro un avversario che ha un quinto della popolazione del suo aggressore ed è ben più povero di lui? 

Aggiornato il 03 settembre 2025 alle ore 10:38