L’Europa si trova ad affrontare una minaccia più grande della Russia: la propria balcanizzazione

La costruzione di ponti nei Balcani occidentali potrebbe rappresentare un microcosmo del futuro frammentato e post-americano dell’Europa

Durante la guerra del Kosovo del 1998-1999, il ponte principale sul fiume Ibar, nella città etnicamente divisa di Mitrovica, era un importante punto focale. “Da un lato, seduti sulle sedie fuori dal bar Dolce Vita ad ascoltare musica italiana, ci sono i serbi”, ha scritto un giornalista. “Dall’altro lato, gironzolano giovani albanesi, e ogni gruppo si guarda con diffidenza”. Venticinque anni dopo, la semplice riapertura del ponte al traffico continua ad essere una questione controversa, così come la costruzione in corso di nuovi ponti sul fiume avviata dal Governo del Kosovo per collegare la zona a maggioranza serba, a nord della città, con quella a maggioranza albanese, a sud. Nei giorni scorsi, i nazionalisti serbi hanno accusato le autorità di “aver guadagnato punti politici ai danni dei serbi. Nessuno ha consultato in alcun modo il popolo serbo quando si è deciso di iniziare a costruire questi ponti”, ha affermato un leader, mentre veniva lanciata una petizione da parte serba per fermare la costruzione.

Le tensioni tra i gruppi che vivono in aree etnicamente miste d’Europa sono un dato di fatto. Ma tali tensioni possono assumere una nuova aggressività al di fuori delle strutture multinazionali che garantiscono sicurezza e prosperità comuni, come la Nato e l’Unione europea. Mentre gli Stati Uniti riconsiderano i loro impegni di lunga data nei confronti dell’Europa (dalla prevista riduzione della presenza militare americana nel continente, all’ambiguità del presidente Donald Trump sulla garanzia di reciproca difesa della Nato, fino all’ambivalenza dell’Amministrazione nei confronti dell’Ucraina) molti temono che il vuoto che ne deriverebbe incoraggerebbe la Russia a mettere alla prova le difese convenzionali dell’Alleanza. Si tratta di una preoccupazione ragionevole, ma è solo una delle tante che un simile scenario comporterebbe. Un’altra possibilità pericolosa è la prospettiva che molte parti d’Europa inizino ad assomigliare a Mitrovica, spinte da odi etnici attivamente fomentati dai governi stranieri.

Un ritiro degli Stati Uniti incoraggerebbe sicuramente alcuni, forse la maggior parte, dei Paesi europei a collaborare più strettamente, come già stiamo vedendo con la “coalizione dei volenterosi” europea. Forse un nucleo di Paesi dell’Ue unirebbe le forze per creare una capacità fiscale comune allo scopo di finanziare la difesa, cosa che i federalisti europei chiedono da decenni. Tuttavia, è anche chiaro che ci saranno alcuni Paesi dell’Unione europea che decideranno di tenersi alla larga da tali sforzi. Alcuni di essi, come la Slovacchia e l’Ungheria, rischiano di allontanarsi ulteriormente, man mano che il cuore dell’Europa prende decisioni irreversibili su un’ulteriore integrazione. Alcuni potrebbero lasciare formalmente l’Ue, e se questo sembra assurdo basta chiedere a David Cameron, altri potrebbero semplicemente rimanere ai margini del blocco mentre il nucleo centrale procede con una forma di integrazione più stretta. Cosa accadrebbe alla Nato in caso di ritiro degli Stati Uniti dal Vecchio continente è un’incognita, ma il primo ministro slovacco Robert Fico ha avanzato l’idea della “neutralità” del Paese, ovvero il suo ritiro dall’Alleanza.

È assolutamente possibile che le turbolenze geopolitiche innescate dall’assenza della leadership statunitense possano trasformare l’attuale regresso democratico rilevato in alcune parti dell’Europa orientale in un declino regionale più ampio. Ciò ridurrebbe alcune delle nazioni post-comuniste un tempo prospere alla povertà e all’irrilevanza geopolitica. L’Ungheria, dopotutto, è già, secondo alcuni parametri, la  Nazione più povera del blocco. Per capire cosa accadrà nei prossimi anni in Paesi come Slovacchia, Ungheria o Romania, occorre rendersi conto che l’integrazione dell’Europa orientale nella Nato e nell’Ue è stata uno strumento particolarmente efficace nel neutralizzare le numerose ostilità e i diffusi risentimenti esistenti tra i Paesi della regione. L’ipotesi alternativa potrebbe benissimo assomigliare ai Balcani, con le loro dispute sui confini e sui nomi, le regioni separatiste e i continui tentativi di destabilizzazione reciproca, periodicamente sfruttati dalle potenze esterne.

L’Ungheria, che ha perso due terzi del suo territorio e della propria popolazione nell’accordo di pace successivo alla Prima Guerra mondiale, ne è un esempio calzante. Viktor Orbán non ha mai abbandonato l’idea che questo destino debba essere ribaltato. “Saremo presenti al funerale di chi voleva seppellirci”, ha dichiarato nel 2020, puntando il dito contro le potenze occidentali e accusandole di aver “stuprato i confini millenari” del Paese. “La battaglia decisiva dovrà essere combattuta dalla generazione successiva alla nostra, la quinta generazione dopo Trianon (il trattato del 1920 che portò alla creazione dell’Ungheria moderna). Saranno loro a compiere gli ultimi passi”. Per quanto inquietante possa sembrare, una simile retorica potrebbe essere liquidata come eccessiva, se solo Orbán non avesse da tempo gettato le basi per una “battaglia decisiva”. Da anni il suo partito, Fidesz, tiene il suo ritiro estivo nella vicina Romania, nella città di lingua ungherese di Băile Tușnad. Quest’anno l’Ucraina ha smascherato una rete di spionaggio ungherese operante in Transcarpazia, tra la minoranza etnica ungherese. Da 15 anni ormai il governo di Orbán fa affluire denaro a squadre di calcio e altre organizzazioni, nelle aree a maggioranza ungherese della Slovacchia, acquistando immobili e interferendo persino nelle campagne elettorali.

Se alcuni Paesi della regione dovessero staccarsi dall’Ue e dalla Nato e se la guerra della Russia contro l’Ucraina dovesse in qualche modo avere successo, tali tensioni aumenterebbero, alimentate da Budapest. È difficile prevedere se si arriverà o meno alla violenza. Tuttavia, è plausibile che si creino versioni ungheresi della Republika Srpska bosniaca sui territori dei Paesi vicini. Questo sarebbe il colpo di grazia all’idea di un’Europa unita, libera e in pace. In luoghi come il Kosovo o la Bosnia, gli scenari geopolitici avversi, la governance disfunzionale e le tensioni etniche si rafforzano a vicenda, creando un circolo vizioso da cui i Paesi hanno difficoltà a uscire, al punto che i governi locali non riescono a prendere decisioni banali come la costruzione di ponti senza infiammare gli animi delle diverse etnie.

Cosa possono fare i responsabili politici europei contro scenari così catastrofici? Innanzitutto, devono agire con prudenza quando si tratta di accarezzare idee di disintegrazione transatlantica, anziché fantasticare incautamente sull’idea di “neutralità” (come fa Robert Fico) o sul concetto strategico denominato “Hussar Cut” (in riferimento alla sciabola da combattimento utilizzata dagli ussari, N.d.T.), un’idea di bilanciamento, avanzata dai consiglieri di Viktor Orbán. In secondo luogo, devono garantire che i loro Paesi siedano al tavolo delle trattative con i grandi attori come Germania, Francia e Polonia quando vengono prese decisioni cruciali sul futuro dell’Ue. Si può solo sperare che le loro scelte siano migliori di quelle prese dai loro predecessori l’ultima volta che l’Europa ha dovuto affrontare cambiamenti geopolitici altrettanto radicali.

(*) Tratto da The Jerusalem Strategic Tribune

(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada

Aggiornato il 09 agosto 2025 alle ore 10:55