Riabilitare l’Ucraina: Trump ci ripensa

Quando potremo dire: “Passata è la tempesta, odo l’Ucraina far festa?”. Beh, prima di allora qualcuno dovrà tagliare le unghie all’orso siberiano, e non sarà un compito facile. Poteva (forse) farlo uno sprovveduto e mentalmente “disagiato” Joe Biden quando, prima dell’avvio della “Operazione speciale” nel 24 febbraio 2022, lo zar di tutte le Russie aveva schierato alla frontiera con Kiev, in una sorta di parata-monstre, qualcosa come 250mila soldati e 60mila veicoli corazzati. “Sleepy Joe” a quel punto, prevenendo l’imminente invasione che quei geni della Cia gli dissero che non ci sarebbe stata, doveva alzare quel benedetto telefono rosso per chiamare Vladimir Putin e chiedergli semplicemente: “Ma tu, che vuoi da noi?”. E l’uomo di Mosca avrebbe sicuramente risposto: “Arretra lo schieramento Nato dentro i confini del 1991, e io in compenso mi riporto a casa i miei soldati”. Certo, meglio di tutti sarebbe stato l’invito esplicito di Biden a formare un tavolo multipolare (Russia-Ue-Usa) per la predisposizione di un serio Trattato sulla sicurezza in Europa, a superamento dell’Accordo di Yalta del 1945.

Invece, accecati dall’imperante wokismo, letteralmente impazzito perché qualcuno aveva osato demolire a cannonate il precedente ordine mondiale, fondato sulla Pax americana e sul rispetto del diritto internazionale onusiano, Europa e America decisero di comune accordo di armare l’Ucraina per rispedire l’invasore russo entro i suoi confini. Mai atto d’orgoglio fu più scellerato, visto che “dopo” milioni di vittime, tra morti e feriti da entrambe le parti, nessuna soluzione pacifica è in vista, dato che per decisione di Mosca, prima di sedersi al tavolo delle trattative con il successore di Volodymyr Zelensky (visto che con l’attuale presidente ucraino ciò non accadrà) Putin intende raggiungere “tutti gli obiettivi” (denazificazione e disarmo dell’Ucraina, annessione definitiva dell’intero Donbass e della Crimea), prima di aderire al cessate il fuoco richiesto da Donald Trump.

Ovvio, che con suo carattere fumino, il tycoon si sia irritato con il suo “partner” russo, che lo ha bellamente preso in giro nel corso di lunghe telefonate inconcludenti. Così, per non smentire il suo principio che le relazioni internazionali soggiacciono al mondo concreto degli affari, dopo aver convinto i suoi recalcitranti alleati della Nato a tassarsi del 5 per cento per contribuire alla spese militari dell’Alleanza, ha pensato bene di monetizzare il suo appoggio all’Ucraina, dapprima vessando Kiev con un contratto capestro sulle terre rare e, poi, vendendo armi e sistemi antimissile ai “volenterosi” d’Europa. Che intendono continuare a fornire armi offensive-difensive a Zelensky. Putin, da parte sua, non ha fatto una piega, cosciente di poter neutralizzare con droni e missili supersonici tutte le postazioni di Patriot cedute agli ucraini da Germania & Co. Detta, così, la cosa appare come un racconto da reality show di cui nessuno, nemmeno i suoi autori, conosce la fine. In linea generale, parlando di Trump e degli Usa, la campagna isolazionista di Maga è più un fatto emotivo che una decisione politica, giustificata dal fatto di voler abiurare le scelte passate dei “boots-on-the-ground”, per risparmiarsi gli enormi costi relativi in vite di soldati e impiego di denaro. Di fatto, l’emotività epidermica non è uno strumento adatto per gestire la politica estera di una grande potenza, come gli Stati Uniti d’America, né per incidere significativamente sulla sua proiezione globale reale. Del resto, il cambiamento della componente emotiva (in politica interna e internazionale) è una funzione fortemente correlata ai mutamenti di scenario, perché poi “se tu vuoi lasciare il mondo è in definitiva quest’ultimo a non volere lasciare te, se ti chiami America” (citazione da Wall Street Journal).

Un mondo senza gli Usa sarebbe destinato a divenire più caotico e incontrollabile, in quanto gli verrebbe a mancare l’immensa forza di coercizione degli Stati Uniti, anche perché i suoi nemici si affretterebbero a riempire gli spazi vuoti e le zone di influenza lasciati liberi da Washington. Si prenda come pietra di paragone la Cina, la quale ha dovuto ricattare sulle terre rare l’Amministrazione Trump, pur di mantenere l’iscrizione dei suoi giovani talenti nelle migliori università americane, cosa che la dice molto lunga sulla differenza che fa la libertà negli insegnamenti superiori di qualità. Pechino festeggerebbe a champagne, se Trump decidesse di chiudersi accelerando autarchicamente al massimo sulle strategie di decoupling e derisking, conquistando sul serio stavolta il primo posto come economia industrialmente più avanzata del mondo, nei settori strategici dei semiconduttori e dell’Intelligenza artificiale. Nessuna persona (nazione) di buon senso potrebbe decidere oggi di suicidarsi, cancellando tutti livelli di interconnessione finanziaria, e i sistemi di interdipendenza commerciali e securitari, dato che pandemie e cyberterrorismo non rispettano le frontiere. Come sostiene il Wsj, “là dove rimbalza la palla è necessario che tu ci sia!”. Quindi, un buon governo deve evitare di creare caos, di essere aggressivo e costruire ponti laddove possibile. Essere pacifici, però, non vuol dire lasciare fare ai malintenzionati che si credono più forti. Vedi, nel caso specifico, Vladimir Putin. Mostrare comprensione umana, non vuole dire che devi risparmiarti a tutti i costi il ricorso alla forza quando necessario, mettendo in campo quanto basta per essere sicuro di averla vinta sui prepotenti, avendo cognizione di che cosa vogliono i tuoi concittadini.

La cosa più importante è di non fissare quelle famose “linee rosse” che poi non si ha né la forza, né la volontà politica di far rispettare. Così, in merito ai famosi 50 giorni dati da Trump a Putin per evitare il disastro, con l’invito-ultimatum a sedersi al tavolo dei negoziati con Zelensky. Chi ha studiato le cause che scatenarono la Prima Guerra mondiale, sa bene quale siano state le responsabilità dei leader dell’epoca, che non sono stati in grado, per mancanza della dovuta chiarezza, di specificare le loro intenzioni e priorità. Fare il contrario di allora, di sicuro servirà a evitare una terza. E forse qui si capisce la strategia di Trump di rimettere in discussione l’articolo 5 della Nato, per evitare che l’intervento in automatico a fianco degli alleati scateni l’inferno, senza prima aver esperito tutti i possibili margini di trattativa con l’avversario di turno. In questo contesto, Putin non è un mostro, ma semplicemente un imperatore in pectore ben deciso a raggiungere i suoi obiettivi. Tutto sta a permetterglielo, fatti salvi principi inderogabili il cui mancato rispetto significhi agli occhi del resto del mondo la sconfitta palese dell’Occidente.

La passione per l’uomo forte dimostrata da Trump, non deve arrivare al punto di fingere che il re di turno non sia nudo, mentre lo è di fatto e di diritto! E certamente all’aspirante zar non può essere né ora, né mai concesso di far quel che vuole nell’Europa dell’Est, riprendendosi ad esempio le province baltiche e persino la Polonia! Perché, poi, i Paesi dell’Ue già nell’ex Urss potrebbero scegliere di riarmarsi pesantemente, in vista di una nuova minaccia di conquista da parte dell’autocrate di Mosca, provocando ulteriore instabilità globale. Quel che serve oggi a Trump è la scoperta di un pensiero completamente nuovo, che faccia evolvere il sistema ben oltre i concetti storici obsoleti di isolazionismo e interventismo. Riusciranno nell’impresa i nostri eroi d’oltre Atlantico?

Aggiornato il 05 agosto 2025 alle ore 11:39