L’importante battaglia tra Turchia e Israele per la Siria

Come interpretare gli scontri in Siria tra il Governo centrale di Damasco e i suoi numerosi nemici, tra cui alawiti, curdi, drusi e le Forze di difesa israeliane? Durante il suo primo quarto di secolo d’indipendenza, dal 1946 al 1970, uno Stato siriano debole funse da campo di battaglia per i suoi numerosi vicini più forti, che qui proiettarono le loro ambizioni, una situazione riassunta nel titolo di un noto libro, La lotta per la Siria. Quella lotta si placò durante i quattro decenni di Governo di Hafez al-Assad e di suo figlio Bashar, per poi riaffiorare e inasprirsi durante la Guerra civile del 2011-2024, raggiungendo nuovi apici dopo la caduta di Bashar, nel dicembre 2024. Il crollo del regime di Assad ha pressoché eliminato l’Iran come fattore determinante in Siria, lasciando Turchia e Israele come principali combattenti esterni. Sebbene i siriani siano i principali attori, fungono di fatto da proxies dei Governi di questi due vicini più potenti. Sia la Turchia che Israele si trovano a dover affrontare tre grandi rischi in Siria.

Iniziamo da Ankara e dal suo uomo forte, Recep Tayyip Erdoğan, al potere dal 2002. Lo scoppio della Guerra civile siriana nel 2011 ha indotto circa 3,1 milioni di siriani a registrarsi come rifugiati in Turchia, insieme a un altro milione che si stima vivano lì senza essere registrati. La loro presenza ha alimentato risentimento e tensione. Di conseguenza, Erdoğan ha manifestato l’intenzione di costruire un muro che dividesse la Turchia dalla Siria per i 911 chilometri di confine che separano i due Paesi entro il 2027 per impedire l’ingresso ad altri rifugiati. I continui combattimenti in Siria quasi certamente spingeranno più siriani a entrare in Turchia, creando ulteriori problemi ad Ankara. In secondo luogo, le autorità turche temono che la frammentazione della Siria in entità politiche autonome su base etnica possa fungere da modello per il loro Paese. Questo timore riguarda principalmente i curdi, che già controllano regioni autonome in Iraq e Siria, ma potrebbe estendersi anche ad altri, come gli alawiti e gli arabofoni.

In terzo luogo, e sfortunatamente per Erdoğan, l’esistenza secolare della Repubblica di Turchia, con il suo retaggio di istituzioni e trattati, limita la libertà d’azione del presidente turco. Pertanto, quest’ultimo vede il suo agente Hayʼat Tahrir al-Sham (l’organizzazione jihadista-salafita siriana, n.d.t.) come uno strumento per condurre un jihad aggressivo, soprattutto contro Israele. Ma per raggiungere questo obiettivo Erdoğan ha bisogno di un Governo centrale forte a Damasco, perché un Governo debole indebolirebbe le sue ambizioni jihadiste. Anche Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano a intermittenza dal 1996, ha tre interessi chiave in Siria. In primo luogo, contrastare gli obiettivi turchi, in particolare la creazione di uno stato jihadista siriano. Finché Damasco sarà distratta dalla lotta contro la propria popolazione, difficilmente potrà fomentare disordini all’estero. In secondo luogo, Netanyahu ha un obbligo morale e politico nei confronti dei 140mila cittadini drusi di Israele. Quando un generale di brigata in pensione delle Forze di difesa israeliane, un druso, accusa il leader siriano di voler “eliminare i drusi”, Gerusalemme non può snobbarlo. Tanto meno può ignorare il migliaio circa di drusi israeliani che hanno attraversato il confine con la Siria per proteggere i loro fratelli.

Inoltre, i drusi israeliani non votano come comunità ma individualmente, quindi un primo ministro cerca istintivamente di ottenere il sostegno elettorale dei suoi membri. Infine, l’attacco congiunto lanciato da Israele e Stati Uniti nel giugno scorso ha gravemente danneggiato il programma nucleare iraniano, ma non lo ha distrutto, il che significa che Gerusalemme potrebbe nuovamente voler inviare aerei israeliani a sfrecciare nei cieli siriani. Quindi, Israele preferirebbe che il Governo siriano rimanesse debole e incapace di controllare il proprio spazio aereo. Parallelamente, dunque, sia Erdoğan che Netanyahu hanno due preoccupazioni difensive e una motivazione offensiva per combattere in Siria. Al contempo, il patron russo della Turchia (nonostante la sua appartenenza alla Nato) e quello americano di Israele disapprovano le azioni dei loro clienti. Vladimir Putin dà priorità al mantenimento delle basi aeree e navali russe in Siria, e quindi un governo centrale debole a Damasco favorisce i suoi interessi. Donald Trump ha incontrato il presidente siriano filo-turco e lo ha appoggiato. L’inviato statunitense in Siria ha lanciato appelli urgenti per la fine dei combattimenti e un funzionario della Casa Bianca ha perfino definito Netanyahu un “pazzo”. Ma finora l’influenza di questi protettori è stata limitata. Due conclusioni: quella che sei mesi fa sembrava essere un’opportunità per la Turchia in Siria, ora sembra esserlo per Israele, e ciò che riserverà il futuro alla Siria sarà in gran parte determinato dalle decisioni prese ad Ankara e a Gerusalemme.

(*) Tratto dal Mef Observer

(**) Traduzione a cura di Angelita La Spada

Aggiornato il 25 luglio 2025 alle ore 10:19