Quei costi della guerra pagati dal contribuente

L’uomo di strada inizia a chiedersi insistentemente come possa mai finire l’avventura bellica in cui s’è tuffata l’Unione europea. Soprattutto se si possa ancora dissentire dal von der Leyen pensiero senza passare per complottisti. Va detto che danni e costi di queste guerre li pagheranno comunque i normali cittadini europei. Quelli che negli ultimi ottant’anni avrebbero beneficiato di pace e democrazia, lavorando e risparmiando senza timori per il futuro.

Gli esperti di rapporti bancari sostengono che, probabilmente, i guai maggiori peseranno su chi ha contratto debiti: potrebbe subire un consistente aumento degli interessi per compensare le perdite dei creditori dettate dal momento; quella revisione unilaterale di ogni contratto che l’indebitato dovrebbe subire a favore del creditore istituzionale. Sappiamo bene come certi costi, con revisioni unilaterali della contrattualistica, vengano usate da multinazionali tecnologiche (telefonia per esempio) e da banche per coprire le perdite derivanti da investimenti azzardati.

Una revisione similare, causa le guerre napoleoniche, venne azionata dopo il 1815 dalle banche britanniche verso i debitori esteri: soprattutto verso quegli stati che entrarono al Congresso di Vienna in posizione prefallimentare.

Chi accetta di partecipare o fare una guerra, sin da tempi remoti, analizza i costi e i benefici dell’impresa. Oggi siamo lontani milioni di anni luce dalle logiche vichinghe o lanzichenecche circa saccheggi, ma non dimentichiamo gli achei che fecero un calcolo presuntivo circa le ricchezze di Troia.

Direte che nell’Arcadia dell’uomo, al pari del freddo calcolo, erano componenti importanti l’onore, la forza fisica, il coraggio. Oggi oltre alla componente economica, ovvero il travaso di ricchezze nelle mani del presumibile vincitore, si confermano le logiche del controllo occidentale dell’Oriente, come anche scongiurare che una rediviva Lega Anseatica scavalchi Londra guardando a San Pietroburgo.

Nella visione londinese le guerre in Ucraina e Medioriente non dovrebbero mai avere una fine. Anzi col passare del tempo potrebbero entrare nei bilanci Ue come costo necessario perché si confermi l’esistenza dell’Occidente europeo: la sua moderna piramide di potere nata con le Crociate e con la distruzione della Lega Anseatica. Quell’epicentro di potere, decisionale ed economico, ripartito tra Londra ed Amsterdam. Potere che fino al Rinascimento noi italiani fronteggiavamo quasi alla pari, per via dell’indubbia rendita di posizione creata dal lavoro, diplomatico e mercantile, delle Repubbliche Marinare: commerciavano con l’Oriente e tendevano una mano alla Russia. Oggi il “vicino Oriente” dei Doria e dei Dogi, dei Borboni e di Mussolini, di Craxi e Andreotti, vede che l’Italia non può più nulla: del resto nemmeno l’appello alla pace fatto dal Papa viene ascoltato.

A vincere è la logica europea della guerra, e le relative decisioni sugli investimenti che spingono le grandi imprese ad attente analisi finanziarie per valutare la redditività dei disastri. Da almeno qualche decennio erano state fatte previsioni matematiche su benefici economici, e relativi costi, collegabili all’investimento bellico in Ucraina e Medioriente. Nella peggiore delle ipotesi, nell’analisi delle risorse da impiegare per lo sforzo bellico sono entrati risparmi, patrimoni ed assicurazioni dei cittadini europei. Ma tutto subisce continui aggiornamenti, revisioni al prezzo di mercato. Esempio: dieci anni fa un carro armato tedesco o francese aveva un prezzo di mercato cinque volte maggiore di uno coreano o cinese, dopo il Covid (causa impennata di materie prime e costi di produzione) il prezzo è salito a dieci volte di più del manufatto orientale. Questi calcoli fatti nelle City di Londra, New York, Chicago, Amsterdam vengono riportati ai decisori di Bruxelles come inconfutabile assioma: ovviamente Bruxelles deve provvedere, perché l’Unione europea è una sorta di capo delle forze armate del Vecchio Continente obbligato a garantire viveri e munizionamenti.

A previsioni e calcoli viene oggi incontro la tecnologia, l’algoritmico calcolo sui flussi di cassa netti ed attesi. Così vengono messi a bilancio dell’impresa i risparmi bancabili dei cittadini, le loro casette, le impresucce, le polizze assicurative, i beni mobili ed immobili. La guerra è ancor oggi definibile scientificamente come un “progetto economico multiperiodale”. E la moneta europea, per come è fatta, viene incontro alle esigenze di Bruxelles: perché l’Euro è nostro solo nell’immediato, quindi è nostra solo la moneta che abbiamo in tasca: quella postata in banca o nelle assicurazioni è a disposizione del “sistema bancario europeo” (Sebc), al pari di ogni patrimonio registrato (mobile o immobile) da pochi mesi nelle disponibilità dei registri dell’Unione europea. L’ottica adottata da Bruxelles è quella privatistica, tesa ad usare la ricchezza individuale dei cittadini per la massimizzazione del profitto di poche imprese private occidentali.

Fatte le debite proporzioni, in un certo modo questo avveniva già ai tempi delle Crociate e poi delle guerre rinascimentali: la spoliazione veniva consumata a fil di lama per garantire le casse dei signori della guerra, unica differenza è che allora si era servi e non cittadini. Il cittadino deve essere informato. Ma anche oggi i poteri economici di controllo (discendenti dei signori rinascimentali) si sono posti la domanda sulla convenienza dell’impresa: certo hanno intrapreso l’investimento molto tempo prima del secondo mandato di Donald Trump.

Quest’ultimo (un po’ come Giorgia Meloni) ha trovato sul tavolo il progetto già avviato. Fermare un simile progetto d’impresa bellica richiederebbe uno sforzo ghandiano, anche mettendo in conto di finire nel mirino degli 007 agli ordini delle security delle multinazionali. Quindi ci chiediamo, cosa succederebbe se uno Stato si sottraesse furbescamente all’impresa bellica?

Ci aveva mitologicamente pensato anche Ulisse, che tentava di fingersi pazzo, poi gioco forza fu costretto a partire per la guerra. Ma oggi cosa capiterebbe a chi non assecondasse i venti di guerra? Probabilmente sul territorio astenuto peserebbero comunque gli interessi passivi pagati per il finanziamento del progetto; i costi verrebbero comunque trasferiti dall’Ue sui cittadini, a cui verrebbe detto che i benefici netti del progetto non bagneranno il paese pacifista. La guerra dei nostri giorni prescinde ancora una volta da un’ottica collettiva o “sociale”: i costi, che sono rilevanti per la collettività nel suo insieme (anche in senso intergenerazionale) vengono spalmati sui cittadini, mentre i benefici vanno tutti al “mercato” gestito dall’oligarchia mondiale. 

Il punto di vista della collettività italiana era, fino al 1992, affidato alla valutazione della politica nazionale: la politica riconosceva la delega del popolo e, tramite i partiti, bene o male informava i cittadini, soprattutto i militanti di sezione. Già con il governo Amato qualcosa cambiava, e il parere (e i patrimoni) dei cittadini venivano messi in balia di forze aliene all’Italia: ovvero soggetti padroni delle sorti dei popoli che appelliamo come “poteri bancari europei” o 007 finanziari della City di Londra. Oggi nella valutazione “with or without” l’Italia non ha voce, soprattutto non dice la sua dalla caduta di Bettino Craxi.

L’Italia non entra nemmeno nella monetizzazione degli spiccioli, comunque i benefici di mercato sono attesi solo e soltanto dai gestori finanziari della guerra: vale l’esempio piccino della guerra nell’ex Jugoslavia degli anni ‘90, che vide un’Italia costretta ob torto collo a partecipare, poi il mercato (con profitti ed egemonie) se lo sono divisi tedeschi, inglesi, francesi e austriaci.

L’attuale impegno bellico europeo consente che Bruxelles, per far fronte agli impegni, possa monetizzare anche beni non oggetto di transazioni di mercato: come la casa, il terreno o il laboratorio dell’italiano medio e piccino, che potrebbe anche subire ipoteca all’insaputa dell’intestatario.

La guerra, secondo gli analisti di borse e Pentagono, rientrerebbe nella classificazione adottata dal metodo Campbell e Brown (e già dal 2003): ovvero una analisi finanziaria “private cost-benefit analysis”. Emerge come la classe politica sia incapace di contrastare la potenza internazionale della dirigenza privata.

Quello che stiamo vivendo, ovvero come le tanto mediatiche democrazie abbiano gettato la maschera, era stato spiegato dal filosofo Kenneth Arrow (autore del teorema dell’impossibilità); ovvero nei sistemi sociali è comunque impossibile soddisfare i criteri di razionalità e democraticità, e non esistono metodiche che possano garantire equità e assenza di dittorialità.

Dello stesso avviso il premio Nobel Amartya Kumar Sen dimostrava come in uno stato, che voglia far rispettare contemporaneamente efficienza paretiana e libertà, al più all’individuo possono essere garantiti alcuni diritti. Sen dimostrava matematicamente il suo paradosso, analogo a quello di Arrow, sulla pelle democrazia occidentale. Qui emergono i limiti circa le promesse, e le premesse, dell’odierna società liberale: ovvero il disequilibrio che generano i mercati quando si dimostrano più forti della politica. Al punto che oggi, qualsivoglia governo occidentale, desideroso di non farsi bocciare dai mercati, debba evitare di dire la verità al popolo, facendo calare ogni decisione presa in conciliaboli internazionali come una mannaia.

Partendo “dall’esame critico dell’economia del benessere”, a Sen va riconosciuto lo sviluppo d’un approccio radicalmente nuovo alla teoria dell’eguaglianza e delle libertà. In particolare, Sen ha proposto le due nuove nozioni di “capacità e funzionamento” come misure più adeguate alla libertà ed alla qualità della vita degli individui: la cosiddetta “teoria dei funzionamenti”, che si pone come alternativa alle consuete e consumate concezioni del benessere economico elaborate negli ultimi duecento anni. Sen esamina l’appagamento dei desideri, la felicità o soddisfazione nelle preferenze: ovvero gli aspetti comunemente etichettati come concezioni “welfariste”, di cui esempio cardine da manuale è l’utilitarismo nella storia moderna e contemporanea. Il “benessere interno lordo” della società, su cui pesa la delega politica a giudicare la bontà dell’affare e della situazione.

Una delega che, nel caso dei costi dell’impresa bellica, va comunque a pesare sul benessere dei cittadini in termini di salute, nutrizione, longevità, lavoro, istruzione, risparmio, danno patrimoniale e psicologico: questo danno sociale verrebbe pagato comunque, anche se l’Italia non mandasse uomini al fronte.

Sen ha posto il problema dell’effettiva tutela di vari aspetti sociali, del diritto di un popolo ad essere partecipe delle scelte. E perché, in mano ai potenti, la scienza economica moderna tende da troppo tempo a spostare l’attenzione dal valore delle libertà a quello delle utilità, dei redditi per le multinazionali e della ricchezza per pochi. Sen in Lo sviluppo è libertà afferma che è fondamentale garantire “la possibilità di trovare un impiego decente e di vivere in una comunità pacifica e libera dal crimine”. L’autore concorda con chi vi scrive che la politica debba necessariamente mediare tra utilitarismo dei poteri economici e diritti dei cittadini, ovviamente informando, soprattutto scongiurando l’insicurezza economica dettata dai grandi investimenti in guerre e disastri. È ormai noto come il governo occidentale dei popoli abbia nell’ultimo decennio inciso negativamente sull’uguaglianza dei diritti e doveri fondamentali, varando un contrapposizione utilitaristica tra popoli e poteri. Il fatto che oggi in Europa esistano più svantaggiati di ieri è evidente, e le istituzioni non possono cavarsela dando la colpa a Putin o alla guerra in Medioriente, alla crisi climatica o alla passata pandemia. Perché, usare queste scuse per abbassare la qualità della vita dei cittadini, è solo funzionale ad allargare la forbice sociale, a riportare i cittadini in uno stato di sudditanza nei riguardi del potere.

Lo stesso Sen ci ricorda come il potere d’un tempo giustificasse ai popoli le proprie inettitudini addebitando le morti a guerre e carestie: attribuendo così parte delle responsabilità alla popolazione, rea d’esporre il regno ai rischi di povertà e carestia ma, fortunatamente, il sovrano dimostrava la capacità di possedere risorse alimentari sufficienti a sfamare i migliori. Nella visione antica la capacità economica era totalmente della corte, mentre nella società moderna i meriti economici vengo attribuiti al genio dei singoli cittadini, o alla capacità delle comunità umane.

Il problema politico degli ultimi cinque anni è tutto qui, la corte è tornata a disporre a proprio piacimento dei patrimoni dei cittadini. Giustificando le prerogative sull’impiego delle risorse con spiegazioni fumose ed insufficienti. Atteggiamento che ha amplificato l’insicurezza sociale, la mancanza di lavoro, la povertà, l’economia di guerra. In questo quadro i capi di Stato contano davvero poco, soprattutto non sanno come dire ai popoli che la gestione dei patrimoni dei cittadini è in mano a pochi soggetti multinazionali che hanno investito nel disastro.

Aggiornato il 24 luglio 2025 alle ore 12:01