
Dopo il 7 ottobre, data in cui Hamas ha compiuto l’attacco più sanguinoso sul suolo israeliano dalla fondazione dello Stato, con oltre 1.200 morti e più di duecento ostaggi trascinati nella Striscia di Gaza, Israele si è trovato in una condizione pressoché obbligata. Una reazione era infatti non solo prevedibile, ma anche necessaria. Nessuna democrazia avrebbe potuto tollerare un’aggressione di tale portata senza una risposta decisa, sebbene la scelta di non reagire per trattare sarebbe stata, almeno in un primo momento, cioè fino ad aver sondato tutte le possibilità di un accordo e aver reso pubblica ogni difficoltà sollevata da Hamas, la reazione forse più saggia. Ma poiché qualsiasi capo di Governo di qualsiasi democrazia occidentale sarebbe stato, nel caso di una simile scelta strategica, costretto alle dimissioni pochi giorni dopo dal suo parlamento, ha prevalso l’idea di distruggere Hamas, colpirne la leadership, spezzarne la capacità offensiva: dopo il 7 ottobre 2023 questa decisione appariva infatti, agli occhi della maggioranza del popolo israeliano e probabilmente anche di buona parte dell’opinione pubblica internazionale, una scelta ineludibile.
Il problema però non risiedeva tanto nella necessità di colpire, quanto nella forma, nella misura e nell’intelligenza politica della risposta.
La strategia israeliana si è delineata rapidamente come una campagna militare ad ampio raggio, mirata a smantellare la rete militare e amministrativa di Hamas. Tuttavia, l’assenza di una chiara visione del “dopo”, l’ambiguità degli obiettivi dichiarati e il numero altissimo di vittime civili – almeno in termini assoluti, ma non rispetto al numero delle vittime civili che caratterizza da decenni questo tipo di conflitti – hanno sollevato dubbi crescenti. Ospedali colpiti, bambini uccisi mentre erano in fila per l’acqua, raid su scuole, chiese, rifugi. Nonostante le dichiarazioni dell’esercito israeliano sulle cautele adottate, l’effetto complessivo è stato agli occhi dei più devastante tanto sotto il profilo umanitario quando sotto quello geopolitico. Fin qui il dato più visibile. Ma se si scava più a fondo, emerge un’altra dimensione del conflitto, forse ancor più insidiosa: quella narrativa. Hamas, che sa di non poter vincere sul terreno, punta tutto sulla rappresentazione del conflitto. Il suo vero obiettivo non è solo militare, ma in primo luogo geopolitico e simbolico: isolare Israele costringendolo a uccidere i propri civili e i bambini usati come scudi umani, trasformare il massacro del 7 ottobre in un pretesto per un’escalation che risvegli l’indignazione globale e infine delegittimare lo Stato ebraico agli occhi del mondo, facendo ricadere sulla sua reazione il peso dell’orrore.
Così, di fronte a quanto mostrato dai media internazionali imbeccati da Hamas e alle parallele prese di posizione dell’Onu, anche la considerazione a tutti accessibile dell’uso da parte degli autori del 7/10 di civili e bambini come scudi umani è passata ben presto in secondo piano, così come è passato in secondo piano il “dettaglio” che Hamas deteneva ancora nei suoi nascondigli, ubicati spesso sotto ospedali e scuole, gli ostaggi israeliani che non aveva ancora ucciso. In questo quadro, appare evidente come la reazione israeliana, pur comprensibile e necessaria nella sua spinta iniziale, sia andata a collocarsi proprio dove Hamas voleva che andasse. Non per debolezza, ma per la difficoltà quasi strutturale di muoversi in un contesto in cui ogni passo militare può nascondere una trappola mediatica. È difficile, forse impossibile, disinnescare un nemico che si serve della morte dei propri civili come arma politica, ma proprio per questo era fondamentale che Israele costruisse, fin da subito, una strategia che non consistesse solo in una risposta militare, ma anche in una narrazione diversamente efficace in grado di contrastare e smentire quella di Hamas, cercando nel contempo di coltivare ogni relazione internazionale che potesse scongiurare il proprio isolamento geopolitico.
Immaginare, per esempio, una roadmap condivisa con attori internazionali, con la Lega araba o con l’Egitto, in cui si dichiarasse che l’obiettivo non era l’occupazione, ma il ritorno della Striscia sotto un’amministrazione che escludesse Hamas da ogni forma di potere, lo avrebbe forse privato di parte del suo armamentario simbolico. Certo, Hamas non avrebbe rinunciato al suo piano. Avrebbe continuato a usare scudi umani, ospedali e bambini. Ma la guerra delle immagini e dei discorsi — che oggi sta vincendo — avrebbe potuto avere un esito diverso se Israele avesse saputo distinguersi, sul piano della comunicazione e su quello strategico, con la stessa nettezza con cui rivendicava il diritto alla propria difesa. Invece, l’assenza di una visione dichiarata del futuro di Gaza, una scarsa attenzione alla comunicazione delle ragioni delle proprie scelte e la mancanza di una efficace diplomazia parallela all’azione militare hanno rafforzato la rappresentazione di un Israele occupante e distruttore e di Hamas come unica forza resistente. Il risultato è che, a distanza di mesi, l’opinione pubblica internazionale è sempre più divisa mentre la pressione diplomatica su Israele sta crescendo vistosamente, diventando ogni giorno più ostile. Il Governo Netanyahu, oggi indebolito da tensioni interne e da una coalizione controllata dall’estrema destra, sembra imprigionato in una logica reattiva, perché l’assenza di una visione condivisa su ciò che accadrà “dopo Hamas” paralizza qualsiasi ipotesi di transizione. Gli ostaggi, che dovevano essere al centro dell’azione, sono diventati simbolo di un paradosso: più la guerra si prolunga, meno sembra in grado di salvarli.
In questo contesto, la domanda centrale non è se Israele avesse il diritto di reagire — lo aveva — ma se la forma della sua reazione abbia saputo sottrarsi alla trappola posta da Hamas. E la risposta, purtroppo, è che no: Hamas non avrebbe comunque rinunciato al proprio piano, ma Israele ha contribuito a renderlo efficace. Certo, probabilmente nessuno ha le prove che una strategia alternativa fosse possibile e altrettanto efficace sotto il profilo militare. Ma l’impressione è che quanto sta avvenendo a Gaza sia esattamente quanto auspicato da Hamas. L’alternativa, ovviamente, non era quella di cedere, ma poteva essere quella di sorprendere non facendo esattamente quello che Hamas voleva. Poteva essere quella di rispondere con la forza, ma accompagnandola con una proposta politica, con una narrazione in grado di smontare colpo su colpo quella di Hamas.
Forse, a ripensarci, un modo per iniziare a farlo poteva essere proprio quello di trattare a lungo prima di reagire, fino all’evidenza dell’impossibilità di qualsiasi accordo che non proclamasse la sconfitta e l’umiliazione di Israele, dimostrandosi disposti a cedere in parte al ricatto di uno scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi per mostrare al mondo quanto la proposta di Hamas fosse pretestuosa e inaccettabile, volta essenzialmente a costringere Israele a reagire militarmente sul campo per ottenere ciò che Hamas riteneva fondamentale per attuare il proprio cinico disegno criminale, e cioè il sangue dei gazawi. Nessuno può sapere se un simile strategia sarebbe stata utile, ma quando il nemico gioca sulla tua reazione, l’unico modo per sconfiggerlo è non concedergli ciò che vuole: la tua prevedibilità. Invece, le principali forme d’imprevedibilità che Israele ha messo in campo sembrano essere proprio quelle gradite ad Hamas. In un momento cruciale come questo colpire, anche se per errore, una chiesa cattolica uccidendo tre persone e ferendone altre può denotare solo una sottovalutazione degli aspetti geopolitici di questo conflitto, dell’importanza della comunicazione e della guerra tra diverse narrative, con il rischio di agevolare la propaganda di Hamas e veder sempre più crescere il proprio isolamento internazionale.
Il timore è che Israele pensi di potersi difendere solo con la forza, ma sebbene la forza in un conflitto di questo tipo sia necessaria, non è sufficiente, perché un paese di circa dieci milioni di persone circondato da alcune centinaia di milioni di nemici virtuali, molti dei quali hanno il fermo proposito di distruggerlo, ha bisogno che una parte consistente dell’opinione pubblica internazionale e dei Paesi democratici sia dalla sua parte. Per fare in modo che questa circostanza si verificasse bisognava forse osare di più e non reagire subito, ma solo dopo aver smascherato le reali intenzioni di Hamas, che poi consistevano nel costringere Israele a spargere sangue palestinese. Oggi, però, Israele non può fermarsi prima di aver conseguito la sconfitta di nemici che non ambiscono a nulla di diverso dalla sua soppressione. Qualsiasi soluzione che non prendesse le mosse da questa sconfitta renderebbe totalmente inutili tutte le vittime di questo conflitto, che verrebbero rubricate in futuro come le conseguenze criminali di una sterile vendetta. Oggi Israele deve andare avanti fino al conseguimento del suo legittimo obiettivo, che è quello di sottrare definitamente Gaza al controllo di Hamas, un obiettivo che però potrà essere raggiunto solo riducendo gli “errori tecnici” e comunicando al mondo di voler far ripartire, dopo la sconfitta di Hamas, un vero processo di pace, e ciò riprendendo il dialogo con l’Anp e il progetto interrotto degli “Accordi di Abramo”, instaurando un dialogo costruttivo con tutti gli interlocutori che hanno compreso che Hamas è il principale ostacolo alla pace e che hanno tutto l’interesse a stabilizzare politicamente il Medio Oriente.
Aggiornato il 23 luglio 2025 alle ore 11:20