La cornice premoderna del Medio Oriente

Sarebbe opportuno tener presente che nel quadrante mediorientale, da decenni teatro delle più svariate guerre, popoli e Stati si trovano in una situazione che precede, sotto molti aspetti, l’ordine westfaliano fondato sul principio della sovranità statale, sulla distinzione tra politica e religione e sul riconoscimento reciproco tra entità nazionali autonome. In larga parte del Medio Oriente, questi presupposti non si sono mai realmente radicati: il potere si distribuisce lungo linee tribali, confessionali, etniche, o viene esercitato da regimi autoritari che mantengono un precario equilibrio attraverso repressione, alleanze esterne o compensazioni economiche. Stati che sulla carta esistono come soggetti di diritto internazionale, spesso non coincidono con comunità politiche effettive, e il controllo del territorio è frammentato, conteso, o delegato a forze non statali. Senza questa particolare accortezza ermeneutica — senza, cioè, riconoscere che ci si muove entro una cornice premoderna, in cui il concetto stesso di Stato-nazione non può essere dato per scontato — si fa fatica a comprendere ciò che accade, e si rischia di applicare griglie interpretative inadeguate, che non colgono la reale natura dei conflitti e delle alleanze.

Se poi dal livello regionale si sale a quello globale, è necessario tener presente che quella mediorientale è, a tutti gli effetti, una falda geopolitica: una zona di frizione e intersezione tra civiltà, religioni, interessi strategici ed economie diseguali. È un’area in cui si incrociano rotte energetiche, ambizioni imperiali e antiche rivalità, ma soprattutto un luogo in cui vengono a contatto — in modo sempre più violento e squilibrato — i popoli ricchi e i popoli poveri del pianeta. Non si tratta solo di una diseguaglianza economica, ma di uno scarto esistenziale, percepito e vissuto quotidianamente come umiliazione, esclusione, rabbia.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e con la fine delle grandi narrazioni ideologiche che in passato fungevano da contrappeso all’egemonia occidentale, l’Islam politico ha progressivamente assunto il ruolo di voce identitaria e oppositiva delle popolazioni marginalizzate, trasformando il risentimento accumulato in una forma di resistenza culturale, simbolica e talvolta militare. In questo senso, il Medio Oriente è diventato il principale teatro in cui si rappresenta lo squilibrio strutturale che separa i garantiti dagli esclusi, i detentori delle risorse dai sopravvissuti, coloro che dettano le regole da coloro che le subiscono. È in questa chiave che va letta la centralità della regione nel discorso politico globale: non come epicentro isolato di fanatismi o arretratezze, ma come crocevia drammatico in cui si riflettono e si esasperano le fratture del mondo. Fatte queste due operazioni interpretative generali — riconoscere la struttura prewestfaliana della regione e la sua funzione di interfaccia critica tra centro e periferia del pianeta — si può poi sperare di capire qualcosa.

Va da sé che “stracciarsi le vesti” — come fece il sommo sacerdote nel Vangelo di Matteo (Mt 26,65) — è, per quanto comprensibile, del tutto fuorviante; e che, come ricorda la tradizione ebraica, chi salva una vita salva il mondo intero (Talmud, Sanhedrin 37a): neanche una vita andrebbe lasciata morire.

Aggiornato il 22 luglio 2025 alle ore 10:18